Tra i documenti più importanti riguardanti la storia di Monselice dobbiamo sicuramente citare il privilegio veneziano concesso da Venezia a Monselice nel 1406. La conquista veneziana della città si concretizza con l’adozione di questo importante documento che regolerà i rapporti con la serenissima per 400 anni.
1. Presentazione
Un sospiro di sollievo certamente raggiungeva l’animo dei monselicensi, quel mattino di metà settembre del 1405, allorché la luce del giorno scopriva i colori del leone alato, salito inaspettatamente nella notte in cima alla Rocca di Monselice. All’onore delle armi, Luca da Lion, capitano della fortezza, preferì la trattativa e forse il tradimento, consegnando ai veneziani una città che aveva conosciuto onore e gloria, tanto da ricevere perfino le attenzioni di un Imperatore. La fine della guerra decretava l’inizio di un dominio politico ed economico che sarebbe stato spazzato via solo da Napoleone.
Anche per Monselice, come per quasi tutte le città di Terraferma, la conquista veniva sancita dalla stipulazione di patti, con i quali i Veneziani si impegnavano anzitutto a garantire l’osservanza degli statuti cittadini. La politica della Repubblica nei confronti della Terraferma era caratterizzata dalla massima flessibilità e rifletteva particolari realtà dovute all’importanza dei luoghi o alle difficoltà politico militari in cui la conquista era avvenuta. Ad esempio, se a Monselice veniva concesso che “Statuta et ordinamenta et constitutiones et antique consuetudines… debeant valida ac sibi perpetuo”, nei patti con Cittadella e Bassano si dirà che i loro statuti dovevano essere osservati nella misura in cui non fossero in contrasto con gli interessi veneziani. Significativo, in questo senso, è il caso di Montagnana che vedrà i suoi statuti approvati a condizione che la città accettasse di sottostare agli impegni che Venezia aveva già preso con Padova.
Gli statuti delle città maggiori come Verona, Padova, Vicenza, e Brescia venivano subito riformati da apposite commissioni di giuristi per togliere quanto non era gradito alla Repubblica. La Serenissima invece dimostrerà una certa elasticità nei confronti degli statuti delle località minori.
I rapporti con Monselice venivano ufficializzati il 30 aprile del 1406 con la concessione del privilegio, redatto nella forma di domanda dei monselicensi e di risposta della Dominante. Nulla conosciamo della probabile commissione che elaborò le 18 petizioni contenute nel patto. Ma è possibile ritrovare, al di là della formula cancelleresca, le preoccupazioni di una città che da secoli conviveva con l’inquietante presenza della fortezza militare. Ben tre capitoli denunciavano le drammatiche condizioni della città, che doveva essere “refici et populari”. Inoltre si chiedeva al Doge la possibilità di reintegrare gli animali uccisi o portati via dai nemici durante la guerra senza pagare tassa alcuna. Venezia non lasciò cadere queste suppliche e accolse benevolmente quelle richieste che potevano aiutare la città a rimarginare le ferite dell’ennesima guerra combattuta attorno alle sue mura, senza però pregiudicare ne il suo prestigio, ne i suoi interessi.
Interessante per la nostra analisi è il capitolo 14 che ci informa sui apporti con le istituzioni ecclesiastiche. I monselicensi chiedevano ai veneziani che nessun beneficio ecclesiastico fosse concesso prima che beneficiari fossero stati riconosciuti dal Comune uomini degni e benemeriti. La risposta fu precisa: “Respondemus quod in factis ecclesiarum non impedimus nos”. Ma alle intenzioni non seguirono i fatti. Per la chiesa di S. Giustina possediamo notizie sicure. La Pieve, (afferma Elisabetta Antoniazzi Rossi), era il fulcro di un forte potere economico, oltre che un centro propulsore di spiritualità e di sensibilità culturale. Ma sulla fine del secolo, malgrado le disposizioni del privilegio, il vescovo Barozzi dovette intervenire personalmente per mettere ordine tra i titolari dei benefici e, come se non bastasse, anche il comportamento dei chierici costituiva motivo di scandalo per fedeli. Il Concilio di Trento doveva, poco dopo, riformare religione religiosi emanando significative disposizioni affinché fossero perseguiti gli ideali del vivere cristiano concretizzandosi a Monselice con la costruzione del complesso delle “Sette Chiesette”, vero trionfo della spiritualità popolare e della Controriforma. Solo allora, dopo secoli di dominio militare, il colle minore fu restituito al popolo e alla sua religiosità.
E’interessante notare che molte richieste dei monselicensi, sommariamente richiamate in ogni capitolo del privilegio, intendevano garantire all’erario comunale entrate sufficienti per fronteggiare dignitosamente le spese pubbliche della comunità. Ma ogni sforzo si sarebbe dimostrato inutile. L’economia comunale sarebbe stata sempre in grave difficoltà, anche perché l’esclusione dalla tassazione delle proprietà acquistate dai veneziani aveva ridotto drasticamente gli introiti comunali. Venezia quindi ricorse sempre più spesso, a partire dalla prima metà del XVI secolo, alla vendita di numerosi beni comunali per pareggiare un disastroso debito pubblico.
Credo non sia azzardato individuare due momenti della politica veneziana nei confronti del territorio monselicense. Il primo va dalla conquista delle città fino ai primi decenni del ‘500. Il secondo incomincia subito dopo. Il primo periodo fu caratterizzato dal consolidamento della presenza della Serenissima nel tessuto sociale di Monselice, ottenuto con la penetrazione economica dei nobili padovani e veneziani nel territorio della Bassa Padovana. Un documento del 1447 citato da Donato Gallo, conferma come l’interesse verso le proprietà immobiliari fosse iniziato fin dai primi tempi della conquista.
Tuttavia anche se i documenti sono molto scarsi si può ipotizzare che l’interesse di Venezia fosse concentrato verso il centro urbano della città raccolto attorno alla fortezza militare, oggetto di nuove cure e di vecchie speranze.
Il secondo momento della politica veneziana iniziò con la sconfitta di Agnadello del 1509. Con la disfatta militare la Serenissima rinunciò definitivamente alla creazione di un vasto dominio nell’Italia settentrionale e si chiuse in una tattica puramente difensiva. Venezia minacciata nei suoi domini mediterranei dall’espansionismo turco, trovò nel retroterra veneto e lombardo una valida alternativa e una sicura fonte per finanziare la sua politica e la sua capitale.
La Terraferma assumeva importanza. Gli investimenti patrimoniali dei patrizi veneziani, tradizionalmente indirizzati verso il commercio, incominciarono ad essere rivolti verso l’accaparramento delle proprietà fondiarie. La chiusura del consiglio cittadino del 1560 registrata da Renato Ponzin, e un controllo più diretto negli stessi atti deliberativi testimoniano la necessità della Dominante di instaurare un diverso rapporto con i propri domini che non vedesse più la città come unico interlocutore.
Lo spostamento di interesse dei patrizi veneziani verso la campagna portò, però, alla rovina i piccoli proprietari terrieri, i quali, oltre alla pressione fondiaria dovevano sostenere anche una tassazione sempre più ingente e insopportabile. I Pisani, i Buzzaccarini, gli Emo sono i nomi di alcuni di questi nuovi proprietari. La concentrazione delle proprietà portò alla parziale rifeudalizzazione del territorio, responsabile, poi, della distruzione di quel mondo rurale che aveva permesso alla Serenissima Repubblica di sopravvivere malgrado tutto. Lentamente i beni comunali incominciavano ad essere venduti. I documenti in nostro possesso portano le date comprese tra il 1530 e il 1561 e attestano il rapido processo di pauperizzazione in atto in questo periodo anche nel Monselicense, come in gran parte degli altri comuni del Padovano. Da segnalare che proprio in questo perido iniziano importanti opere di bonifiche agrarie che favoriscono il passaggio delle proprietà ai ricchi veneziani.
Resta da definire l’importanza del privilegio nella storia di Monselice. Credo sia esatto concordare con Ventura quando afferma che quasi mai nei comuni minori, e quindi neanche a Monselice, si era sviluppata nel periodo medievale una completa autonomia politica in grado di contrastare la dominazione veneziana. Anzi, la Serenissima, accentuò l’egemonia di quelle famiglie che costituivano l’ossatura delle vecchie strutture municipali. Nel tempo queste si trasformarono in caste chiuse erigendo barricate per impedire alle classi inferiori di alterare questo precario equilibrio. Concludendo, Monselice nel primo periodo conservò la sua autonomia nei limiti fissati dal privilegio probabilmente grazie all’importanza della fortezza militare. Naturalmente non bisogna dimenticare che gli interessi veneziani verso la Terraferma erano soprattutto di natura fiscale. Ma nel secondo periodo la comunità di Monselice non riuscì a sfuggire al lento soffocamento economico, culturale e politico imposto dalla Dominante. Il privilegio, malgrado confermasse importanti principi di autonomia, nei fatti, non riuscì a garantire ai Monselicensi quanto prometteva.
2.
Monselice e il suo privilegio di Renato Ponzin
Il presente lavoro prende avvio dal ritrovamento fortunoso dell’originale del “Privilegium Montissilicis” concesso nell’aprile del 1406, dopo la conquista della città effettuata da Venezia. Il documento è molto importante per definire i rapporti di Monselice con Venezia nei primi del Quattrocento.
La storia di Monselice alla fine del Trecento ed inizi del Quattrocento è contrassegnata dallo scontro feroce, che oppose la signoria carrarese alla potenza marinara di Venezia. I rapporti tra i due stati avevano vissuto momenti di fedele e reciproca collaborazione, ma non erano mancati i tradimenti da parte dei Carraresi nei confronti della Serenissima. La posta in palio era molto alta per entrambi: da un lato il desiderio, la brama di allargare il potere della propria Signoria padovana ad altre città del Veneto, dall’altro la necessità di avere uno spazio vitale nuovo nella terraferma, diversificando così i suoi interessi commerciali, tutti rivolti al mare e al commercio con l’Oriente.
La Terraferma diviene dunque il nuovo obiettivo. Per Venezia era un fattore irrinunciabile procedere all’unificazione territoriale del retroterra veneto, caratterizzato dall’esistenza di signorie cittadine, che a volte erano un po’ troppo irrequiete oppure non mantenevano gli accordi sottoscritti con la città lagunare. La Serenissima aveva bisogno di una Terraferma sottomessa. L’Oriente ormai non dava più quelle garanzie di sicurezza economica richieste, inoltre i nuovi acquisti sarebbero serviti al patriziato veneziano per investire in forma più sicura i propri capitali. Bisogna osservare che i rapporti con il retroterra veneto non sorgono improvvisi: molti veneziani andavano a fare i podestà nelle città di Terraferma, instaurando un dialogo politico ed economico con queste, che diverrà a poco a poco occasione per imporsi ed istituire dei rapporti di dipendenza economica.
Venezia interverrà in più di un’occasione, a partire dal Trecento, nelle vicende politiche, ma soprattutto belliche, nella Terraferma veneta per lo scatenarsi delle rivalità tra Carraresi, Scaligeri e Viscontei. Ogni volta la città lagunare cerca di mediare tra le parti in modo da non avere alle spalle potenziali nemici e tenendo d’occhio o stesso tempo la possibilità di espandersi territori. Infatti 1339 con la pace di Venezia, che sanciva la fine (momentanea) delle ostilità tra i da Carrara e gli Scaligeri, otteneva Treviso e la marca Trevigiana e poneva una particolare tutela ai Carraresi, ritornati a Padova. La fedeltà di costoro non era certamente molto salda, per tutto il XIV sec. la famiglia padovana cercherà di approfittare dei momenti di debolezza di Venezia per riprendere le proprie velleità espansionistiche e liberarsi dalla sua pesante tutela. Ogni volta però era costretta ad accettare l’aiuto veneziano nei momenti di avversità a sottostare ancora di più al suo controllo.
Nel 1403 in seguito all’invasione della Lombardia operata dai Carraresi, Venezia si allea con i Visconti. Nel 1404 fanno atto di dedizione Serenissima Vicenza, Belluno, Bassano, Feltre, l’anno successivo vede i da Carrara ormai alle strette. Il 22 maggio 1405 i Veneziani giungono sotto le mura di Monselice, ultimo ostacolo prima di poter conquistare Padova. Dopo una lunga trattativa con Luca da Lion, che comandava le truppe carraresi a protezione della Rocca, il 14 settembre del 1405 il vessillo di San Marco saliva sulla Rocca, Padova sarebbe stata presa due mesi dopo, vedendo terminare definitivamente l’avventura Carrarese.
Venezia, e importante, non si impadronì delle città di Terraferma con la conquista militare, ma anche con gli atti di dedizione, che attestano il desiderio delle singole comunità di passare da una dominazione all’altra. Il momento successivo all’atto di dedizione era la cessione da parte della Dominante di un privilegio, nel quale si stava l’accettazione o meno di alcune petizioni presentate dai sottomesi. La difficoltà principale per Venezia era quella di riuscire a coincidere il proprio bisogno di imporre un predominio politico e militare con la necessità di rispettare la più o meno estesa autonomia volle comunità ora sottomesse.
Il privilegio viene concesso a Monselice il 30 aprile del 1406, esattamente sette mesi dopo la conquista da parte veneziana. Il documento riflette nel suo testo la concezione patrimoniale, che il patriziato veneziano aveva dello stato. Più volte ricorre l’espressione “dominio nostro”, che acquista in proposito un particolare valore possessivo. I capitoli non avevano l’aspetto di patti liberamente stipulati tra la Dominante e i territori conquistati, bensì erano dei veri e propri privilegi ressi dal Senato, il quale si riservava di accettare ciò che veniva proposto dai rappresentanti delle comunità sottomesse.
Nel privilegio di Monselice è esplicitamente affermato che “homines montissilicis certa capitula et petitiones dominio nostro porrexerint nostram exauditionem et gratiam implorantes”, il che ci illumina su quale potere contrattuale la comunità di Monselice potesse contare.
Se da un lato veniva offerta la possibilità ai sottomessi di presentare alcune richieste per salvaguardare particolari prerogative o chiedere concessioni, dall’altro vi era la Dominante che si riservava di accettare o meno le petizioni in modo inappellabile, dimostrando tuttavia che si sarebbe prestata loro quanta attenzione era possibile. Era importante però ottenere il privilegio, che sanciva, bene o male, dei diritti inderogabili e che riconosceva, nella maggior parte dei casi, una certa autonomia concreta o simbolica. Ci si preoccupava di conseguenza che ciò che Venezia concedeva non venisse intaccato o minacciato da qualcun’altro. E’ il caso della vicina Este, che denunciò al Senato veneziano i tentativi del Reggimento di Padova di erodere i diritti, che erano stati riconosciuti alla città con il privilegio concesso il 16 settembre 1405. Per rimediare nel 1425 il doge Pasquale Cicogna riconfermerà agli Estensi le prerogative loro riconosciute con il documento precedente, onde evitare ulteriori scontri con Padova. Il 27 giugno 1444 il Consiglio dei Dieci stabiliva, che non si potevano emanare ordini che contrastassero con i privilegi concessi, esclusa naturalmente la Dominante, che nel concederli si era riservata la possibilità di poterli modificare a seconda delle proprie necessità.
Nel caso di Monselice si ingiunge ai rettori di rispettare quanto è stato riconosciuto ai sottomessi, ma ricorda a questi ultimi che “reservantes tamen nobis libertatem et arbitrium omnia ipsa et singula corrigendi, mutandi, interpretandi, addendi et minuendi ac faciendi sicut nostro dominio videbitur et placebit”. Questo conferma che i patti concessi a chi “nostram exauditionem et gratiam implorantes” non avevano un valore assoluto e definitivo, trasforma in pratica quello che sembrava un contratto stipulato tra la Dominante e i dominati in un atto unilaterale. Se Venezia concedeva o riconosceva determinati diritti, non significava che questi fossero inattaccabili e inviolabili anche per lei.
Se Este ottiene la rinnovazione del privilegio pochi anni dopo la prima concessione, per Monselice la situazione e un po’ diversa. La riconferma del precedente del 1406 verrà concessa solamente un secolo più tardi nel 1539. Passata la bufera scatenatasi in seguito allo scontro tra le potenze della Lega di Cambrai e Venezia, Monselice chiede alla città lagunare, che gli sia mandato un nuovo privilegio in quanto il precedente “vetustate vitiatum et corrosum” non era più in grado di assolvere al suo compito. Il nuovo documento ripeteva fedelmente quanto era già stato concesso nel 1406, certamente il fatto le il privilegio fosse vetusto non deve essere considerata come l’unica causa di una richiesta di rinnovazione. Preoccupati che la guerra avesse sconvolto per alcuni anni i rapporti con la Dominante, i Monselicensi volevano ottenere assicurazione che nulla era mutato nei rapporti con essa e che i diritti riconosciuti loro un secolo prima rimanessero ali e immutati anche ora.
Nel prendere in considerazione il primo capitolo del privilegio di Monselice vediamo che Venezia risponde affermativamente alla richiesta della comunità di poter mantenere validi per il governo locale gli statuti, le costituzioni e le antiche consuetudini con cui fino ad allora si era governata.
Non dobbiamo lasciarci ingannare, tuttavia, dal consenso veneziano, rispetto non significava necessariamente conservazione degli antichi statuti cittadini così come erano.
Venezia si preoccupò, per esempio, nelle grandi città di togliere dai loro ordinamenti qualsiasi riferimento polemico e lesivo nei confronti dell’autorità veneziana. Purtroppo non possiamo testimoniare se anche gli statuti monselicensi, andati persi nell’incendio del 1522, e gli organi dirigenti della città nel ‘400 abbiano subito qualche intervento o modificazione da parte di Venezia. Per avere notizie di un intervento della Dominante nel riformare gli organi di governo locali dobbiamo aspettare il XVI sec., quando nel 1560 il Senato veneziano, tramite il doge Girolamo Priuli, invia al podestà Giovanni Natale “de Medio” una ducale con la quale riforma il consiglio della comunità. Basandoci sul fatto che, in seguito all’incendio del 1522, Monselice si era regolata con gli statuti di Este, i quali prevedevano un consiglio di 48 membri, si osserva che ora viene limitato a 40 persone, provocando un restringimento delle possibilità di entrata nell’organo decisionale della comunità. Inoltre il nuovo consiglio sarebbe stato rieletto da quello uscente, in questo modo Venezia non faceva altro che favorire il fenomeno della formazione di un’oligarchia che si manifestava attraverso l’egemonia di poche famiglie cittadine.
Un elemento importante nel governo della Terraferma e la figura del podestà. Nel secondo e quarto capitolo del privilegio si fa riferimento a questo funzionario inviato dalla Serenissima per rappresentarla e soprattutto controllare l’attività amministrativa e politica nelle città conquistate. L’invio di questi ufficiali è la novità sostanziale del dominio veneziano, avrebbero esercitato quelle funzioni di governo, che prima erano ad appannaggio degli istituti comunali.
Nelle grandi città venivano inviati un capitano, che sovrintendeva alle cose militari e alla Camera fiscale, e un podestà che ricopriva funzioni civili; nei centri minori, come Monselice, veniva inviato il solo podestà. In base alle notizie forniteci dal privilegio, il rettore veneziano si vedeva riconosciuta la giurisdizione civile di primo grado fino alla somma di 200 lire di piccoli, inoltre aveva il compito di presiedere il consiglio della comunità, garantendone la funzionalità, e controllava il funzionamento dei vari uffici cittadini. Per quanto riguarda il salario esso era fornito direttamente da Venezia mantenendo così fede alle richieste della comunità.
Abbiamo detto che presiedeva i consigli cittadini, controllando che le loro attività rispecchiasse quanto affermato negli statuti, e ovvio che il suo controllo non doveva pregiudicare la libera attività del consiglio della Comunità. Un episodio molto importante per illuminare i sui rapporti tra podestà e consiglio e quello illustrato nella ducale dell’8 maggio 1566. I consiglieri e i deputati “ad utilia” di Monselice si erano lamentati del comportamento del podestà, il quale aveva peso più di 500 ducati “in diverse fabbriche et altre cose non necessarie”. Il doge accolse le lamentele e riconobbe, che il suo funzionario aveva usato “mezzi indiretti per far prendere solamente quelle parte, che a lui parevano. In sostanza si denunciava un comportamento non ortodosso del podestà e soprattutto Venezia riconosceva certe autonomie a livello locale, sia pure per solo calcolo politico. Per Monselice costituisce un momento molto importante, il doge riconosce infatti ai deputati “ad utilia” della comunità di poter porre quelle parti che potevano arrecare beneficio alla comunità, senza impedimenti da parte del podestà. Era ovvio che quelle parti non dovevano porsi a loro volta in contrasto con gli interessi veneziani nella città.
Se per certi aspetti Venezia non si oppone alle petizioni presentate dai fedeli sudditi monselicensi, per altri viene presentato un netto rifiuto. E’ il caso dei capitoli che riguardano la materia fiscale ed è abbastanza comprensibile, che la Serenissima non ammettesse compromessi o concessioni, che potessero intaccare le entrate fiscali, così preziose per mantenere uno stato che aveva da poco affrontato ma guerra molto impegnativa per la conquista di importanti territori in Terraferma.
Dall’ottavo capitolo del privilegio risulta che la comunità di Monselice aveva chiesto, esplicitamente, di essere esentata per 10 anni dal rigare tributi, la macinatura o altre imposte, affinché “terra predicta refici et populari possit et cetera” .
La richiesta era più che legittima, la città era stata coinvolta nella guerra tra i Carraresi e i Veneziani, i danni sicuramente non erano stati indifferenti, ma la Dominante non se la sentiva di transigere su un argomento così delicato e con una diplomazia tutta veneziana risponde che a causa delle grandi spese fatte e che sta facendo e per i grandi inconvenienti che deriverebbero la questo non era possibile accogliere la petizione.
Dobbiamo segnalare che questo comportamento è generalizzato in tutto il Padovano, che risulta un importante contribuente per il ‘400 del fisco veneziano, in quanto zona agricola particolarmente ricca. La situazione per Monselice viene confermata all’undicesimo capitolo dove si chiede che mai sia imposta una tassa sul sale e Venezia taglia corto dicendo, che sarebbero stati trattati equamente con tutte le altre città e luoghi del loro dominio.
Ma se da un lato la città lagunare preleva, e disponibile altresì a coprire o a trovare il sistema per finanziare alcune spese della comunità sottomessa. Non dobbiamo scordare il podestà pagato direttamente da Venezia, oppure quando accetta quanto richiesto nel decimo capitolo, dove la nostra comunità chiedeva che le spese pubbliche riguardanti gli scoli e le condotte d’acqua delle campagne venissero fatte a spese di coloro che usufruivano dell’utilità di tali interventi. Una conferma di questo ci viene data da una ducale del 16 gennaio 1416, con la quale il doge Tommaso Mocenigo confermava al podestà di Monselice, Vittorio Barbaro, la decisione, presa dal suo predecessore Zaccaria Grimani, di far partecipare alle spese per l’allargamento e la manutenzione del Gorzone anche i cittadini di Padova e i monasteri, che avevano proprietà vicino a questa fossa.
Sempre a carico di Venezia erano le spese di manutenzione per i castelli, le torri e i fortilizi della città di Monselice, di modo che fossero tenuti preparati e sempre in buono stato. E’ ovvio che la decisione veneziana e molto importante, in quanto riconosce a Monselice il ruolo fondamentale di baluardo per la difesa da sud del territorio padovano, funzione che però verrà meno nel ‘500, quando verranno preferiti i grandi centri urbani per impostare la difesa della terraferma veneta.
3. Storia e descrizione del documento
Per un certo periodo di tempo il testo del Privilegio di Monselice è stato conosciuto grazie all’esistenza di due copie. Una presente nei Pacata presso l’Archivio di Stato di Venezia e coeva alla redazione dell’originale del 1406. L’altra depositata presso la Biblioteca Comunale di Monselice ma era la copia della rinnovazione del privilegio concessa alla città di Monselice nel 1539.
Da quanto possiamo ricavare dalla copia della rinnovazione del 1539, era già in condizioni precarie allora, tant’è vero, come ho già detto nelle pagine precedenti, che la comunità fu costretta a chiederne un altro esemplare. Purtroppo il documento è privo della bolla pendente, che lo accompagnava, rimane ancora la plica con i due fori attraverso cui passava il filo per la bolla. Le dimensioni sono mm. 495×355, la grafia usata e una gotica quattrocentesca molto posata nel tratto, da avvicinarsi quasi a una gotica libraria. Da segnalare la M gigante di “Michael Stendo”. Per la traduzione si è tenuto conto del fatto che non ci troviamo più di fronte ad un latino classico, bensì ad una lingua che ha subito profonde trasformazioni nel corso dei secoli, non solo sotto l’aspetto ortografico, ma anche semantico. Il documento esce da una cancelleria pubblica, si tratta di un atto pubblico, che rivestiva una importanza notevole nelle grandi relazioni politico-giuridiche tra Venezia e Monselice; si è dovuto tener conto della presenza di termini giuridici, che ho cercato di rendere al meglio nel loro significato. La trascrizione del documento è stata strutturata in maniera tale da poter individuare con facilità i vari capitoli e quindi avere una maggiore comprensione. Ognuno di essi è stato accompagnato da un numero arabo, che compare sulla sinistra del foglio.
Del documento, come ho accennato prima, esiste una copia membranacea coeva all’originale registrata nei Pacta: Archivio di Stato di Venezia, Pacta, VII, f. 33v-34r. Presso la Biblioteca Comunale di Monselice si trova invece la copia della rinnovazione del privilegio concessa da Venezia nel 1539 (doge Pietro Lando), la trascrizione ha risentito della cultura umanistica, in quanto è stato reintrodotto l’uso dei dittonghi (anche se non omogeneo in questo caso). Dobbiamo altresì osservare, che quest’ultima in alcuni punti non è del tutto esatta. Per la datazione della copia permangono delle incertezze, in quanto non vi e stata apposta alcuna data dal trascrittore, la grafia usata e la miniatura presente nel verso del foglio di guardia fanno propendere per la sua collocazione nella Il metà del XVI secolo. Il documento e membranaceo, contenuto all’interno di un piccolo codice, dove troviamo anche le copie di due ducali: una del 1560, l’altra del 1566.
La rilegatura e in pelle rossa, sui due piatti vi sono delle impressioni in oro lungo i bordi, quello anteriore reca la scritta “Privilegium Montissilicis”.
4. Traduzione del Privilegium Montissilicis
Michele Steno, per grazia di Dio doge delle Venezie etc.
A tutti quanti e ai singoli che leggeranno il presente privilegio salute e affetto di sincero amore. Conviene ad ogni sovrano volgere attenzione alle richieste dei suoi sudditi fedeli ed esaudirle secondo quanta onestà abbiano in sè. In realtà con un aumento della fedeltà di costoro si accresce un saldo accordo, di modo che la liberalità e l’esaudimento del sovrano è diffuso più grandiosamente e gradito tra loro. Avendo dunque presentato i diletti e cari, fedeli sudditi, il comune, i cittadini e gli uomini di Monselice certi capitoli e petizioni al nostro dominio, imploranti la nostra grazia ed esaudizione, noi accogliendo i detti nostri fedeli sudditi con sincera benevolenza abbiamo dato una risposta ai sottoscritti capitoli e petizioni così come sarà sotto dichiarato singolarmente.
1. E per primo al primo capitolo contenente che siano e debbano essere validi e in perpetuo si confermino e conservino intatti i loro statuti, ordinamenti, costituzioni e antiche consuetudini sotto le quali fino ad oggigiorno si ressero e governarono, rispondiamo che siamo contenti che si faccia così come è contenuto nel capitolo.
2. All’altro capitolo contenente che i podestà e i rettori, che secondo le circostanze siano stati deputati al governo di detta città, abbiano la cognizione e il potere di giudicare e di terminare con una sentenza definitiva fino alla somma di duecento lire di piccoli riguardo la cause civili, con mero e misto coniando, rispondiamo che dal nostro dominio saranno inviali rettori che avranno libertà come si domanda e parrà e piacerà al nostro dominio.
3. All’altro capitolo contenente che tutte le pene pecuniarie siano devolute al comune di Monselice e siano poste e depositate fra le loro entrate, rispondiamo che ci è gradito e vogliamo che sia adempiuto come al solito, intendendo le pene pecuniarie inferiori alle dieci lire, le quali pene pecuniarie e somme di denaro deducibili da dette pene e condanne, siano spese e impiegate in rifacimenti e altre spese necessarie alla detta città e comunità, e sia inteso circa le pene e condanne che risulteranno per alcuni atti che riguarderanno la comunità di Monselice.
4. All’altro capitolo attraverso il quale chiedono che i podestà e i rettori, che secondo le circostanze saranno deputati al governo di detta città, abbiano e debbano avere in perpetuo un loro salario per il proprio governo dal nostro dominio, così che i detti uomini e comune per nulla siano tenuti al salario, rispondiamo e diciamo che siamo contenti di fare così come è contenuto nel capitolo.
5. All’altro capitolo contenente che tutti e i singoli malfattori e banditi per qualsiasi ragione o causa in seguito ad alcuni misfatti e delitti commessi nel territorio padovano, i quali siano da Monselice, liberamente, sicuramente e impunemente possano venire e abitare nella città di Monselice, e per tutto il distretto padovano non si proceda in qualsiasi modo, nè possa procedersi riguardo alle loro persone o pena pecuniaria, ma siano cancellati totalmente dai loro detti bandi, noi rispondiamo che ci è gradito e vogliamo che si osservi e sia fatto in conformità al contenuto del capitolo soprascritto.
6. All’altro capitolo contenente che le ville di Pernumia, Tribano e Battaglia siano poste con i propri diritti e siano riunite sotto la podesteria di Monselice, così che possano in perpetuo essere costrette a sostenere collettivamente qualsiasi tributo e come ad altri siano costrette altre ville con altri castelli, diciamo e rispondiamo che a causa di alcune promesse fatte ad altri non lo possiamo soddisfare.
7. Nello stesso modo all’altro capitolo attraverso il quale chiedono che i castelli, le torri e i fortilizi della città di Monselice siano tenuti preparati e in buono stato a spese del nostro dominio, alle quali i detti uomini per nulla siano tenuti, rispondiamo e diciamo che siamo contenti di fare come è richiesto.
8. All’altro capitolo attraverso il quale chiedono che fino ai dicci anni prossimi non siano costretti a sostenere alcuni tributi, nè tasse reali o personali, ne a pagare la macinatura, nè altre imposte, affinchè dal comune la città predetta possa essere riedificata e popolata etc., rispondiamo che a causa delle grandi spese falle e da farsi e per i grandi inconvenienti che deriverebbero da questo non e possibile in alcun modo.
9 . All’altro capitolo attraverso il quale chiedono che le vendite fatte da Francesco da Carrara o dai suoi procuratori, riguardo le quali sia stato effettuato il pagamento dall’inizio della guerra sino ad ora fino alla somma di mille ducati, ai cittadini di Monselice o agli abitanti dello stesso luogo siano valide e siano conservate integre, nè altrimenti in alcun modo siano modificate, senza che sia adducibile in contrario alcuna eccezione di diritto o di fatto, rispondiamo che siamo contenti per quanto è chiesto nel capitolo e che siano intese le vendite fatte fino a quando abbiamo preso la città di Monselice e sia inteso riguardo ai beni propri di Francesco da Carrara o del comune di Padova.
10. All’altro capitolo contenente che le spese pubbliche sia presenti che future, che sarà opportuno che siano fatte circa gli scoli e le condotte delle acque delle campagne della detta podesteria e tutti gli argini ivi posti, siano fatte e debbano essere fatte con i contributi di qualsiasi fondo, tanto di consorti che di cittadini, ai quali conviene l’utilità delle dette spese pubbliche, le quali spese siano divise equamente pro rata, rispondiamo che sia fatto come è contenuto nel capitolo.
11 . All’altro capitolo contenente che mai sia imposta al detto comune e agli uomini alcuna tassa sul sale, ma che possano senza alcuna condizione comprare il detto sale loro necessario ovunque avranno deciso e lo stesso vendere solamente agli uomini e alle persone della detta comunità secondo il beneplacito del suo assenso, rispondiamo che riguardo il sale saranno trattati equamente con tutte le altre città e luoghi nostri.
12 . All’altro capitolo contenente che le persone della detta città e podesteria possano liberamente recarsi per tutto il territorio del nostro dominio per comperare qualsiasi animale bovino e tutte le volte che avranno deciso per uso e comodità propria e le dette bestie possano condurre nella detta podesteria per lavorare le terre e i propri possedimenti, essendo morti i propri animali e portati via dai nemici, le quali bestie possano portare senza impedimenti e tranquillamente e senza alcun dazio e gabella o tassa o altro pagamento, rispondiamo che per la comodità dei detti uomini e per la ricostruzione dei raccolti siamo contenti di soddisfare come è chiesto, dichiarando che questa concessione sia intesa ed abbia luogo sino alla festa di San Pietro del millequattocentosette venturo.
13. All’altro capitolo attraverso il quale chiedono che per pagare e risarcire molte persone da Monselice per il vino, pane, bestiame, biada e certe vettovaglie, che furono prese da loro da Luca da Lion per bisogno dei mercenari, che erano a Monselice per Francesco da Carrara, il comune e gli uomini di Monselice possano fare un’inchiesta fra i debitori del predetto Francesco, riguardo ai quali e contro i quali il detto comune possa ricorrere e pretendere da essi e ad essi sia fatta giustizia sommaria e spedita fino alla somma di denaro che devono avere i creditori predetti, rispondiamo che siamo contenti di soddisfare quanto è contenuto nel capitolo.
14. All’altro capitolo attraverso il quale chiedono che gli uffici divini secondo dovere siano celebrati nelle chiese della città e podesteria di Monselice, che nessun beneficio ecclesiastico sia conferito da qualche arciprete o abate o altri superiori, ai quali sembra spettare il conferimento dei detti benefici, se prima quelle persone, che chiedono l’investitura, non siano riconosciute dal comune e uomini di Monselice essere degne e benemerite di tali benefici, rispondiamo che noi non ci opponiamo alle azioni delle chiese, ma saremo favorevoli quanto potremo perché abbiano soddisfazione riguardo gli stessi benefici.
15. All’altro capitolo contenente che il beneficio assegnato alla fabbriceria, che fu lasciato alla chiesa della pieve di Santa Giustina di Monselice per la riparazione della stessa chiesa, perché fossero fatte elemosine secondo la disposizione e la provvidenza del comune e degli uomini della città di Monselice, del quale beneficio si occuparono per lungo tempo, ora anche secondo la disposizione e la provvidenza degli uomini predetti liberamente e totalmente ritorni a questo, perché sia soddisfatta totalmente, secondo l’antica consuetudine, la volontà del defunto testatore, rispondiamo che se la cosa è così siamo contenti che questa cosa sia fatta da quelli ai quali spetta, con la conoscenza e l’ordine dei nostri rettori, così che la volontà del defunto sia adempiuta.
16. All’altro capitolo contenente che tutte e le singole persone sia indigene che forestiere e consorti di qualsiasi condizione o stato esistano, le quali abitino o in futuro siano venute ad abitare nella città di Monselice e nella sua podesteria, siano tenute e possano essere obbligate dal comune e dagli uomini della detta città a sostenere in comune qualsiasi onere e tassa e imposta, in base a ciò che sostiene e sosterrà secondo le circostanze il comune predetto, eccetto Niccolò del fu ser Pietro da Trento, che al momento abita in Monselice, il quale può decidere di pagare i suoi oneri personali ovunque gli sarà gradito e sarà andato scegliendo. Riguardo dunque i forestieri, che siano venuti ad abitare in detta città, gli uomini della detta comunità si faranno compiacenza e li tratteranno benevolmente, come sembrerà utile fare a loro benevolenza e indulgenza per la trasformazione della detta città. rispondiamo che siamo contenti che sia fatto come è richiesto, ma riguardo ai forestieri che verranno ad abitare siamo contenti che sia fatto come è chiesto, intendendo che sia fatta con la volontà e la conoscenza dei nostri rettori, ma non siano compresi dazi o altri introiti del nostro comune.
17. All’altro capitolo contenente che la porta maestra del cammino della città di Monselice verso Costa, che era e sarebbe utilissima agli uomini e alle persone di quella città e che fu chiusa pochi mesi prima, sia aperta affinché gli uomini e le persone predette possano ricevere il solito vantaggio dalla sua apertura, rispondiamo che ci è gradito che sia fatto come chiedono, ma sia aperta a spese della detta comunità, e che le spese per la sua custodia siano fatte dalla detta comunità e siano pagate dal nostro rettore, il quale dunque paghi quelle spese e le faccia ai deputati ad essa.
18. All’altro capitolo contenente che ogniqualvolta siano imposti dazi dal nostro dominio al comune e agli uomini predetti, a loro non siano imposti maggiori di quelli che sono imposti al comune e agli uomini di Este, rispondiamo che per quanto riguarda i dazi restino nella condizione nella quale erano prima della guerra. Le quali cose tutte predette e singole delle predette concesse da noi alla comunità e agli uomini prima citati vogliamo e comandiamo che da tutti i nostri podestà, capitani, rettori e ufficiali nostri, ai quali spettano o potranno spettare in futuro, devono essere effettivamente osservate per quanto contengono. Riservandoci tuttavia la libertà e il potere di correggere, mutare, interpretare, aggiungere, togliere e fare queste cose collettivamente e singolarmente così come parrà e sarà gradito al nostro dominio.
Redatto nel nostro palazzo ducale, nell’ultimo giorno di aprile, indizione quattordicesima, nel millequattrocentosei.
Testi tratti dall’opuscolo: Renato PONZIN – Flaviano ROSSETTO, Monselice e il suo privilegio veneziano (1406), Monselice 1988 (Appunti di storia monselicense, 2) .
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