La “Rivoluzione” del 1797 a Monselice e nella Bassa Padovana
Il 26 ottobre 1997, nell’ambito dei premi Brunacci, nel castello di Monselice si è svolto un convegno presieduto dal prof. Paolo Preto. Le relazioni sono state raccolte e pubblicate in questo sito.
La “Rivoluzione” del 1797a Monselice e nella Bassa Padovana
INTERVENTI
PAOLO PRETO
I giacobini veneti del secondo Settecento
FILIBERTO AGOSTINI
Le municipalità democratiche nel Padovano (1797)
GIOVANNI SILVANO
La rivoluzione fiscale nel Padovano (1797)
FRANCO FASULO
La demografia a Monselice nel Settecento
LUISA MENEGHINI
L’assetto sanitario pubblico nella Bassa Padovana (1797-1815)
I giacobini veneti del secondo Settecento
Paolo PRETO
Questa tavola rotonda ha per argomento, come avete visto dal programma, La “Rivoluzione” del 1797 a Monselice e nella Bassa Padovana. Abbiamo pensato di articolarla su due piani: il primo prevede l’analisi dei contesto più ampio della cosiddetta “Rivoluzione giacobina” nel Veneto e, quindi, la caduta della Repubblica di Venezia e i suoi effetti – non solo a Venezia, ma anche nelle principali città della Terraferma dove, tra l’altro, la caduta anticipa quella di Venezia stessa – mentre nel secondo piano, sceglieremo temi specifici della zona di Monselice o, in generale, della Bassa Padovana, per vedere come questi avvenimenti, che hanno coinvolto tutta la Repubblica di Venezia, si siano anche presentati in questa realtà locale, e con quale specificità.
A me è stato affidato il compito di dire qualcosa in generale sui giacobini veneti del secondo Settecento. In realtà, come vedrete dalla mia esposizione, forse già il titolo stesso meriterebbe una piccola riflessione storiografica sul perché il termine “giacobini”, che viene comunemente usato -e debbo dire, da moltissimi anni – nella storiografia italiana è, probabilmente, errato, o meglio, non sufficiente ad esprimere con precisione chi erano, che cosa erano e come volevano essere definiti questi uomini che, nel 1797, sulla scia delle idee della Rivoluzione francese, hanno tentato di costruire una società nuova abbattendo quella vecchia. Credo di poter dimostrare abbastanza agevolmente che, in realtà, questo termine forse è improprio. Ma tant’è, siccome ormai è usato da tutti, anche dagli stessi storici che ne contestano la legittimità storica, tanto vale continuare ad usarlo, anche se io spero di mostrare con precisione come, invece, forse più propriamente, fosse e sia il caso di chiamare coloro che hanno “rivoluzionato” – come si soleva dire allora – il Veneto anziché giacobini, “patrioti” o “democratici” o “repubblicani”; questi sono i tre nomi coi quali loro stessi si autodefinivano.
La ricerca e la riflessione storica sul triennio giacobino in Italia sono state intense e vivaci in questi ultimi anni, pur scontando, com’era naturale, il peso di una lacerazione e di una contrapposizione politica che iniziano nei giorni stessi della Campagna d’Italia di Bonaparte, si sviluppano poi per tutto il periodo risorgimentale e post-unitario, e si riaccendono anche in questi giorni. Faccio solo alcuni nomi, alcuni di ovvia notorietà, altri forse più noti solo a chi pratica ricerche storiche: possiamo partire da Cuoco, Croce, Gramsci, Cantimori, Romeo, De Felice, Saitta, fino ad arrivare agli storici più recenti, Capra, Diez, Zaghi che, nelle loro indagini, spesso divergenti in modo dialettico, hanno prospettato un triennio giacobino che assume un profilo netto ed originale nella storia d’Italia. E le più recenti ricerche sono state spesso stimolate dai due successivi bicentenari: non dimentichiamo che noi celebriamo questo centenario della caduta della Repubblica che, in realtà, è immediatamente seguente al centenario della Rivoluzione francese, l’evento che è poi stato causa prima, per la Francia prima e per l’Italia poi, di tutti quegli avvenimenti che hanno portato poi, in specifico, anche alla caduta della Repubblica di Venezia.
Breve, molto più breve di quasi tutte le altre consorelle italiane, è l’esperienza delle municipalità democratiche venete, che non hanno mai goduto di una buona fortuna storiografica; gli ex aristocratici e i reazionari, nel Settecento e nei primi dell’Ottocento, con l’appoggio ora tacito ora pubblico delle masse popolari -soprattutto delle masse contadine – le hanno avversate ed attaccate spesso senza pietà. I patrioti liberali dei Risorgimento, poi, e con loro molti storici post-unitari ne hanno preso sdegnosamente le distanze, anche a prezzo di ripudiare le loro pur evidenti idealità unitarie per inseguire presunte radici settecentesche sabaude dei moto indipendentistico.
Quanto ai nostri giorni, ideologi e politici di varia estrazione hanno per un verso inneggiato ad un acceso nazionalismo, per un altro esaltato alle insorgenze anti-giacobine, anti-francesi, ma in realtà anche ferocemente anti-unitarie e anti-nazionali. Credo che questa sia l’occasione propizia per un ripensamento sereno e obiettivo di questi avvenimenti storici. Troppo forte, talvolta, è l’urgenza celebrativa e talvolta anche politicamente strumentale per una rivisitazione di uomini e vicende così cariche di implicazioni ancora vive nell’attualità della nostra vicenda politica; eppure, anche le municipalità democratiche attendono una nuova occasione di studio, non sottratta certo alle passioni dei nostri tempi – a conferma davvero bruciante che tutta la storia è storia contemporanea – ma almeno sottoposta ad un vaglio paziente e rigoroso di fonti e di analisi. Questa è l’occasione, io credo, non solo per celebrazioni ma anche per una rivisitazione storica. A Venezia, capitale dell’ex Stato marciano, la storiografia del passato ha riservato un’ampia e stringente attenzione, mentre molto minore è stata, per moltissimi anni, l’attenzione alle municipalità di Terraferma. Queste ultime, dove pure l’esperienza democratica del ’97 è stata lunga nel tempo, anzi più lunga di quella veneziana, e talvolta anche più intense le trasformazioni politiche, economiche e sociali, hanno rivestito un interesse molto più episodico.
Nel corso di pochi mesi, i giacobini veneti – e vedremo tra poco se è poi ancora giusto chiamarli così – hanno sognato, ideato e progettato e, in minor misura, realizzato, radicali mutamenti nelle strutture politiche, economiche e religiose delle società. Alcune riforme sono state davvero realizzate, molte, molte altre, molte di più, sono rimaste allo stadio di progetto, per la loro troppo radicale utopia o per la brevità dell’esperienza democratica. Ma chiediamoci: sognare e progettare, forse più sognare che progettare, una società fondata sui valori di libertà, di eguaglianza, di fraternità, di democrazia, è stata una colpa? Essere utopisti, anticipare i tempi di una trasformazione democratica della società, può essere stata certo una ingenuità storicamente, non una colpa.
Andiamo a vedere, uno per uno, i valori in cui hanno creduto i giacobini veneti, con tutti gli eccessi, le ingenuità, le debolezze e le contraddizioni, e chiediamoci sinceramente quanti, oggi, in buona fede, negherebbero cittadinanza, nella nostra società, ai valori e agli istituti rappresentativi allora immaginati. Se poi davvero qualcuno auspica un ritorno ad una società fondata sul privilegio della nascita e del foro, sull’inquisizione laica ed ecclesiastica, sulla discriminazione e segregazione degli Ebrei, credo che si possa benissimo accomodare: la libertà di opinione che i democratici più coerenti propugnavano già allora, vale anche per loro.
Prima di ricordare concretamente l’opera delle municipalità democratiche venete, è opportuno un chiarimento linguistico, proprio su quel termine “giacobino” su cui vi ho intrattenuti all’inizio. Sono giacobini o no questi democratici, o meglio patrioti, che compaiono come nuova classe dirigente nel Veneto nel 1797? Il termine “giacobino”, e qui faccio riferimento ad una splendida ricerca storico-linguistica di qualche anno fa, di un collega di Padova, Erasmo Leso (che ha scritto un bellissimo libro sul Vocabolario democratico nel triennio giacobino italiano):
… il termine “giacobino” – dicevo – largamente impiegato in riferimento sia alla Francia sia all’Italia ha raramente un mero valore descrittivo molto più spesso ha un’intenzione decisamente peggiorativa, non solo da parte dei controrivoluzionari, anzi, è sgradito, con poche eccezioni, agli stessi patrioti, che lo ritengono un termine infamante, utilizzato ad arte dai loro avversari.
E, dunque, se io continuerò ad usare il termine “giacobini” riferito ai democratici o patrioti è perché esso, pur evidentemente anacronistico dal punto di vista storico – i veri giacobini erano già stati rovesciati in Francia dal colpo di stato dei 9 Termidoro, e Bonaparte, in Italia, non è l’espressione dei giacobini, ma è l’espressione del nuovo indirizzo moderato e anti-giacobino del Direttorio-, ciononostante, quindi, il termine continua ad essere usato nel Veneto pre-rivoluzionario dai governanti veneziani, dai polemisti, dalle spie, per indicare, genericamente, i filo-rivoluzionari, anzi, come li chiamavano, i Geniai della Francia e delle loro idee rivoluzionarie; più tardi, il termine viene ripreso, sempre in senso spregiativo, negativo, dalla storiografia conservatrice e controrivoluzionaria della Restaurazione.
Come si chiamavano allora questi rivoluzionari? Si chiamavano, loro stessi, “cittadino” o democratico” o “patriota”: così era colui che era nemico degli aristocratici- “patriota” , dunque, è colui che sia i conservatori che gli aristocratici chiamano invece “giacobino”. Un esempio per tutti – ma potrei citarne a decine -: in un opuscolo intitolato La vera nozione del Giacobinismo e il castigo conforme alle leggi, pubblicato nel 1799 sia a Verona che a Venezia – osservate la data, siamo già in età austriaca -, e di cui non conosciamo l’autore – ma un sottotitolo ci informa che egli è ” unignoto giureconsulto al servizio di Sua Maestà Imperiale Regia Apostolica”, e quindi è un austriacante -, in quest’opuscolo appunto si legge:
... i Giacobini, insieme alla parola “Clubista” e “Sanculotto” sono voci barbare e casualmente formatesi nella Francia, e poscia artificiosamente ora poste per sprezzo e ora anche per stolto orgoglio adottate …
e poi dice:
… questi Giacobini si distinguono in “fazionari”, in “filantropi”, “massonici” e gente che segue queste idee solo per pura opinione.
Semmai, tra patrioti e democratici veneti è più agevole e più facile, dal punto di vista storico, distinguere tra i “moderati” e gli “estremisti”; nettamente maggioritari i moderati”, molto attivi, però, i cosiddetti “estremisti”; vi ricordo che i termini “moderato” ed “estremista”, come quelli di “destra”, “sinistra”, “centro” e “terrorista” nascono nel linguaggio politico proprio in questi anni: gli uni e gli altri sono presenti nelle municipalità; i secondi, i cosiddetti l’estremisti” o “terroristi”, come li chiamavano, sono gli unici, i veri, i pochi giacobini, e sono quelli presenti, ad esempio, nelle Società di Pubblica Istruzione di Vicenza e Venezia; in quest’ultima, oltre ai nomi di Dandolo e di Giubani, vi ricordo che spicca la figura dei Foscolo, che in una delle sedute si scaglia contro i preti, contro la Chiesa, contro i ricchi, e propugna quasi una sorta di comunismo ante litteram, e viene definito da Casanova, in una lettera di quegli anni, “terroriste et extremiste et jacobine”; come vedete, è in senso puramente e fortemente negativo. Però, in questo caso, Casanova vedeva giusto, perché la posizione di Foscolo è davvero estremista, come quella dei giacobini francesi, ma era uno dei pochi ed era in nettissima minoranza nella municipalità di Venezia, come in nettissima minoranza lo erano a Vicenza e lo erano a Padova, dove solo l’abate Savonarola tuonava contro i ricchi e contro la Chiesa e tutti gli altri, invece, dichiaravano che la rivoluzione, a Padova, non era né contro i ricchi né contro la Chiesa; quindi, erano “moderati” e non “estremisti”. E’ un termine, questo, che assume poi un particolare valore perché più volte viene richiamato il “valore positivo della moderazione nell’ordine pubblico e nelle idee stesse di democrazia”. Un esempio padovano: Melchiorre Cesarotti, uno dei molti docenti universitari che ha aderito entusiasticamente alla municipalità democratica, pubblica – ma in realtà, come vedremo, mai come in questo caso il termine “giacobino” non è esatto, perché le idee democratiche di Cesarotti non erano poi tanto salde, perché, appena arrivati gli austriaci, si affretta a dimostrare zelo ed ossequio all’Imperial Regio Governo e a pentirsi dei suoi trascorsi cosiddetti “estremistici” – un libretto che ha una grandissima fortuna e non solo a Padova – viene tradotto anche in Piemonte, in Emilia e in altre zone d’Italia -: si intitola Istruzione di un cittadino ai suoi fratelli non istrutti o meno istrutti, in cui scrive:
…la democrazia è il più naturale, il più giusto, il più ragionevole, il più avveduto, il più prosperoso di ogni governo, il più atto a produrre la pubblica e privata felicità, ed è fondato su un giusto equilibrio di doveri e diritti con l’assoluta esclusione dell’uguaglianza dei beni di fortuna, illusione funesta e fatale.
Come vedete, ci tiene a prendere le distanze da ogni idea di estremismo sociale di tipo sanculotto. “Estremisti e terroristi sono invece” – scrive un altro opuscolo di questi anni – uomini come Ugo Foscolo, che a Venezia fanno balenare lo spettro di una legge agraria che favorisce l’uguaglianza fra le fortune dei cittadini. “Estremisti”, “terroristi” e “giacobini” sono i democratici vicentini, che nella Società Patriottica di Pubblica Istruzione tuonano contro la moderazione di Bonaparte e degli altri loro confratelli nella municipalità, i quali con un linguaggio acceso e rivoluzionario, sognano di diffondere fra il popolo i lumi della ragione e di introdurre radicali innovazioni nella società, nell’economia e anche nella Chiesa. Addirittura, secondo un cronista reazionario, vogliono scannare freddamente, come nella Francia di Robespierre, tutti coloro che non sono repubblicani.
Estremista, anzi favorevole a drastici provvedimenti di tipo terroristico, è a Padova quell’abate Savonarola che vi ho appena ricordato. In realtà, anche a Padova, dove pure si introduce una radicale riforma fiscale, si sottopongono a processo – per altro finito con l’assoluzione – un ex nobile e alcuni monaci e frati di Sant’Antonio e di Santa Giustina; la municipalità nel suo complesso è ben lontana da radicalismo e repressioni anche lontanamente assimilabili al Terrore francese. Ciò non impedisce all’abate Gennari di gridare, il 27 agosto, “siamo qui sotto il regno dei terrore”, e l’omonimo autore degli Annali di Padova afferma : “il terrorismo ha quivi pure incominciato a porvi il suo piede”. Mai come a Padova la municipalità nella sua concreta realtà è stata di una moderazione esemplare.
Come ha osservato il professar Agostini, che vi parlerà dopo di me, mentre a Bergamo, Crema e Brescia le municipalità traggono origine da un atto di rivolta dei patrioti locali, nella Terraferma veneta, invece, il distacco rivoluzionario da Venezia avviene dopo la dichiarazione di guerra della Francia contro Venezia e dopo la stipula dei “Preliminari di Leoben” (18 aprile); quindi non è un frutto esclusivo della forza rivoluzionaria dei patrioti locali, ma deve essere ricondotto alla presenza delle truppe francesi. Questa, come ha detto Agostini, è una vera e propria sovranità limitata, che pesa poi in modo decisivo non solo nella scelta dei cittadini che costituiranno quelle municipalità stesse, ma anche sulla loro forza autonoma di decidere nei mesi successivi.
Le municipalità si costituiscono seguendo i tempi dell’avanzata delle truppe francesi – è inutile che io vi elenchi adesso città per città -; si insediano a mano a mano che i francesi avanzano da Bergamo fino a Mestre nelle varie città, a distanza di qualche giorno, talvolta precedendo addirittura l’arrivo dei francesi stessi. Chi sono gli uomini che si instaurano al governo di queste municipalità? Abbiamo gli elenchi per tutte. Sono homines novi, cioè “uomini nuovi”, come li definisce uno storico conservatore dell’Ottocento; uomini nuovi che salgono alla ribalta dei potere politico; ma, in realtà, non tutti sono poi così nuovi. Alcuni sono addirittura nobili, nobili di Terraferma, fatto non sorprendente ove si consideri il tradizionale risentimento della nobiltà di Terraferma contro il patriarcato veneziano. Ma in gran parte sono esponenti di quella che noi oggi chiameremmo “la borghesia imprenditoriale e delle professioni”, e, in numero esiguo, ma pur sempre significativo dei tempi nuovi, sono alcuni popolani – di solito qualche commerciante, piccolo artigiano, contadino non bracciante, piccolo proprietario- molto rari, naturalmente
Le municipalità si articolano allora in termini di comitati e si irraggiano poi, progressivamente, nel territorio. Più tardi, il 16 giugno, Bonaparte suddivide tutto il territorio veneto in sette governi centrali, a loro volta ripartiti in cantoni, premessa di quella dipartimentalizzazione che sarà definitivamente introdotta nel 1806, quando il Veneto sarà ricompreso nel territorio più ampio del Regno d’Italia. Dipartimentalizzazione che corrisponde poi, a grandissime linee, anche se non proprio esattamente, a quelle che sono poi le province successive dopo l’annessione dei Veneto al Regno d’Italia.
Tracciare in poche righe un bilancio dell’attività riformistica delle municipalità venete non è agevole, anche perché in molti casi, l’esperienza di governo è breve – si tratta di fare un semplice conto: le prime sorgono ad aprile, le ultime a maggio; considerate che i “Preliminari di Leoben” risalgono al 1 8 aprile e già si cominciava a vociferare che il Veneto potesse essere ceduto all’Austria -. La pace di Campoformio risale al 17 ottobre; quindi aprile, maggio, giugno e luglio: a luglio già si comincia a sapere che a Passariano Napoleone sta per cedere il Veneto o, perlomeno, lo si paventa. Molte municipalità, sapendo che il loro destino è ormai segnato, si bloccano e non fanno più niente, ma gestiscono quella che noi chiameremmo “l’ordinaria amministrazione”. Quindi si tratta di pochissimi mesi, nella maggior parte dei casi; pochi mesi, e talvolta è difficile anche ricostruire l’attività per la frammentazione della documentazione, frammentazione sopravvenuta a tanti traumatici mutamenti.
Quando cambia un governo con una rivoluzione, le prime vittime sono gli archivi, che spesso vengono bruciati dagli esponenti del governo che sta per cadere, nel timore che documenti soprattutto di polizia, documenti di politica possano servire alla nuova amministrazione, per rivalersi contro chi ha avuto incarichi di responsabilità – pensate ai danni tremendi che gli archivi veneti hanno avuto nel 1848, ad esempio, o ancora nella Seconda Guerra Mondiale, nei giorni che vanno dal 25 al 27 luglio o intorno all’8 settembre o, peggio ancora, nei giorni che vanno dal 20 al 30 aprile dei 1945, quando moltissimi archivi vengono eliminati per evidenti motivi. La stessa cosa succede in questi anni: i veneziani prima e i giacobini dopo, alla vigilia della caduta del loro governo, cercano di far sparire tutti i fondi dell’Inquisitore di Stato : la gente andava a ritirare pacchi dei documenti da utilizzare per accendere il fuoco delle stufe in casa; questi documenti contenevano il resoconto di tutti i processi che erano stati fatti mesi prima, per cui ci è quasi impossibile sapere chi è stato processato davvero e in quale modo -; e in Terraferma non succede molto di diverso.
Quali riforme hanno attuate – se le hanno attuate – queste municipalità ? Non c’è dubbio che è soprattutto nell’ambito economico e finanziario che queste municipalità cercano, e debbono anche, per motivi di impellente necessità collegata alla volontà dei francesi di requisire le maggiori risorse possibili, di imporre drastiche ed immediate riforme nel campo fiscale ed economico. Negli altri campi, dove l’urgenza era minore, si fanno molti progetti – poi, però, il tempo ridottissimo che hanno questi governi di fronte a se stessi non consente una concreta realizzazione (tuttalpiù, si sono conservati i progetti) -. Non dimentichiamo, poi, che parecchie riforme non costituiscono poi delle novità: non sono altro che la traduzione completa dei progetti riformistici che erano già comparsi neo anni ’60-’70 del secolo, non solo a Venezia, ma anche in tutta Europa, nell’ambito dei cosiddetto “dispotismo illuminato” che, in alcuni stati europei, aveva dato degli esempi luminosi: basti pensare all’Austria di Giuseppe H e alla Prussia di Federico Il e, in Italia, alla Toscana e alla Lombardia austriache. E’ il caso, faccio qualche esempio, dell’abolizione dei fedecommessi e delle manomorte ecclesiastiche, dell’ introduzione del libero commercio dei grani.
Le municipalità furono pressate dalle richieste di denaro e di beni da parte delle truppe francesi – truppe francesi che, non dimentichiamolo, si dovevano mantenere in Italia; difatti l’armata di Napoleone arriva in Italia senza alcun contributo finanziario dei governo francese e deve vivere in Italia, ma vivere nel senso letterale della parola, cioè mangiare, bere, requisire cavalli, coperte, camicie (a questo proposito, mi diceva il professar Silvano che una delle richieste più frequenti alle municipalità era fornire camicie ai soldati francesi che ne erano proprio privi); tutto ciò che serviva a 27-35 mila uomini doveva essere prelevato, per amore o per forza, nelle terre occupate e, quindi, la prima attività, sgradevole evidentemente, delle municipalità è quella di rifornire i francesi di tutto ciò che serve per il loro esercito -.
Nei primi tempi dell’occupazione ci sono alcune misure fiscali che sembrano di senso democratico – ad esempio vengono aboliti o ridotti alcuni dazi; poi ci si accorge che, diminuendo o abolendo i dazi vengono meno molte delle fonti finanziarie delle municipalità, quindi non si riescono non solo a pagare le contribuzioni dei francesi, ma neppure a far funzionare la piccola macchina democratica -; poco dopo però le municipalità, dovendo mantenere inalterato il gettito fiscale, anzi aumentarlo, sono costrette ad operare delle riforme. Introducono nuove imposte, basate, quasi sempre, sull’abolizione di qualsiasi privilegio; e così, per la prima volta, quasi tutti i cittadini, veneti e veneziani, laici ed ecclesiastici, sono costretti a pagare le tasse in modo uguale, come vi spiegherà poi il professar Silvano, addirittura si introduce il criterio dell’imposta progressiva, che è un principio estremamente democratico, teorizzato negli anni precedenti ma mai concretamente applicato in nessuna città italiana, neanche in Francia – per lo meno nei primi tre o quattro anni dalla Rivoluzione, salvo nei mesi dei Terrore, che però poco durano anche in Francia.
Il rapporto con la Chiesa cattolica, in particolare con il clero locale, alto e basso: tema decisivo per la sopravvivenza delle municipalità democratiche. Contrariamente a quello che succede in Piemonte, in Toscana e in Emilia Romagna, il rapporto con la Chiesa cattolica in Veneto è abbastanza buono e scorre in modo tutto sommato tranquillo, molto di più che negli altri stati italiani. 1 sacerdoti si dividono grosso modo in tre gruppi: alcuni, non molti, una piccolissima minoranza, aderiscono apertamente al nuovo ordinamento rivoluzionario e democratico e addirittura, in qualche paese, benedicono gli alberi della libertà e indossano le coccarde tricolori. A Padova abbiamo forse l’esempio più clamoroso: il vicario della città, poi vescovo – fu nominato vescovo da Napoleone proprio in ringraziamento dei suo atteggiamento filo-rivoluzionario -, Scipione Dondi Dell’Orologio, si merita dai reazionari l’epiteto ingiurioso di “vescovo giacobino” per le sue inequivocabili simpatie per il nuovo ordine; egli arriva addirittura a scrivere delle lettere pastorali per ingiungere i parroci di dimostrare ossequio e di spingere i fedeli a collaborare coi nuovo governo democratico. Altri sacerdoti, anch’essi poco numerosi, sono esplicitamente ostili ma, a differenza di altre regioni d’Italia, non capeggiano mai qui nel Veneto – salvo un caso che non è propriamente nel Veneto, ma nella Lombardia veneta, in provincia di Bergamo – insorgenze di tipo sanfedista, e neppure entrano in contatto palese ed aspro con la nuova autorità democratica. La maggioranza, diciamo pure il 90% degli ecclesiastici, in cuor suo non è entusiasta dei nuovi governi, così visibilmente segnati da ascendenze massoniche, illuministiche e, a volte, anche ateistiche, sia di origine italiana che francese, ma vuoi per il tradizionale lealismo statale dei clero veneto, vuoi per la moderazione e la prudenza dei democratici veneti – che rassicurano in ogni modo popolazione e clero della loro volontà di escludere la religione dalla generale trasformazione della società – anche nella Terraferma non si registrano conflitti aperti e non esplodono lacerazioni tra autorità politiche e religiose. Eppure sul versante delle istituzioni ecclesiastiche, come ci dirà tra poco il professar Agostini, non si può certo dire che i giacobini veneti siano rimasti sul piano delle teorie. Pressanti esigenze di debito pubblico spingono quasi ovunque, salvo a Treviso, a secolarizzazioni massiccio dei beni ecclesiastici, in ogni caso sottoposti a regime fiscale uguale a quello di tutti gli altri cittadini- a Padova, addirittura, si arriva a sopprimere la mensa vescovile, anche se poi queste soppressioni sono quantitativamente molto inferiori sia a quelle che verranno fatte dopo, durante il Regno Italico, sia a quelle che Venezia aveva fatto molti anni prima dell’inizio della Rivoluzione francese.
Tutti i governi repubblicani italiani, e anche quelli veneti, dedicano largo interesse all’istruzione pubblica, anzi, come la chiamano, “all’educazione democratica dei popolo”; nel Veneto, però, la brevità dei governi non consente articolate elaborazioni teoriche e tanto meno concrete ed importanti riforme – su questo credo che ci intratterà ancora, fra poco, il professar Agostini -.
Come a Venezia, anche nella Terraferma, è soprattutto nella sfera della giustizia che i nuovi governi giacobini operano una radicale cesura col passato. La volontà di fare tabula rasa di un sistema connesso col monopolio nobiliare dell’esercizio della giustizia, soprattutto penale, induce la municipalità veneziana, e poi quelle della Terraferma, a chiudere immediatamente il foro, istituire tribunali straordinari e un sistema penale misto, parte inquisitorio e parte accusatorio, in cui spicca la :figura dell’accusatore pubblico – l’attuale nostro Procuratore della Repubblica, o Pubblico Ministero, che è una figura istituita per la prima volta in questi anni; era già stato previsto in Francia ed è una grande novità dei governi giacobini veneti; novità che in realtà dura pochi mesi, perché con l’arrivo degli austriaci verrà soppressa; ricomparirà, però, durante il successivo governo napoleonico -.
Da un settore dove tutto si rinnova ad uno in cui la continuità con le idee e la prassi dei vecchio stato veneziano è quasi totale: la sanità e l’assistenza. Tutte le misure per la salute pubblica di uomini e di animali sono riprese, pari pari, dai governi veneziani – questo non è un settore in cui si può improvvisare in pochi giorni, e, tra l’altro, il settore dell’igiene e della sanità pubblica era quello dove Venezia aveva una consolidata tradizione di buon governo, di efficienza, e i governi giacobini non fanno altro che continuarla, mantenendo inalterate tutte le strutture, talvolta anche i nomi stessi degli uffici -.
Io vorrei ricordare alla fine di questa introduzione quelle che sono le novità sul piano teorico-ideologico di queste municipalità; libertà, eguaglianza, democrazia: vi sottolineo il fatto che io non ho mai nominato la parola “fraternità”; non è una mia omissione: in tutti i proclami dei governi giacobini veneti non compare mai la terza parola della Rivoluzione e i primi proclami redatti in francese, con lo stemma dei berretto frigio e della Marianna recita liberté, egualité, fraternité. Debbo dire che è un problema su cui abbiamo riflettuto io, il professar Agostini e gli altri, per capire se questa è una semplice omissione o se vi è sottesa una qualche ragione ideologica profonda; è un problema ancora non chiaro.
A Milano succede la stessa cosa: la fraternité compare nei primi giorni, poi quando il potere viene preso man mano dai giacobini lombardi e non più dalle forze di occupazione francese, essa viene eliminata. Le parole libertà, uguaglianza e democrazia rischiano, in realtà, di essere solo parole vuote di contenuto e spesso lo sono, in questi pochi convulsi mesi delle municipalità democratiche, quando molti cittadini, magari diventati tali per inerzia o, addirittura per forza, di questi valori sperimentano solo gli aspetti deteriori, quelli meno positivi, cioè requisizioni, distruzioni di luoghi sacri, violenze, anarchia, requisizioni di Monti di Pietà.
Ci sono però almeno due casi in cui davvero le municipalità democratiche venete offrono ai cittadini concreti e positivi esempi di valori e di istituti democratici: la libertà di stampa e la libertà religiosa. Sulla libertà di stampa, sui pericoli di abuso e anche sui suoi limiti si è a lungo dibattuto nella Francia rivoluzionaria, e parimenti vivaci ed infuocati sono stati i dibattiti a Milano durante i primi giorni della Repubblica Cisalpina, e a Venezia, all’interno della neonata municipalità. Le città venete vivono la loro stagione democratica tra illusioni di libertà senza limiti ed interventi censori delle municipalità, soprattutto delle autorità militari francesi. In ogni caso, con tutti i limiti, in teoria e di fatto, esistenti nel quadro concreto della vita politica, in questi pochi mesi nel Veneto si gode di una sostanziale libertà di stampa, concretamente evidenziata da un gran numero di opuscoli, libri, stampe, avvisi e volantini dati alle stampe, non solo dai giacobini ma anche dai controrivoluzionari- la libertà di stampa è tale se lo è per tutti, e non solo per chi è al governo. In questi tre mesi possono stampare opuscoli non solo i giacobini ma anche coloro che attaccano i giacobini; a Venezia, Vittorio Barzoni – un notissimo giornalista che passerà poi a servizio degli inglesi ed avrà una lunga vita fino agli anni del Risorgimento – scrive opuscoli di fuoco contro la municipalità democratica, gli abusi, gli errori, le vessazioni che questa municipalità compie con l’aiuto e con l’appoggio dei francesi. Che dire infine della libertà religiosa? In un Veneto dove, salvo a Venezia, non esistono consistenti minoranze religiose – in molte città dei Veneto gli Ebrei non c’erano, mentre in altre sì, ma altre minoranze di tipo protestante erano state quasi dei tutto eliminate nei secoli precedenti -, c’è solo una grande, fondamentale riforma della democrazia: la fine della discriminazione degli Ebrei, ora giuridicamente equiparati agli altri cittadini. lo voglio ricordarvi due cose: a Venezia, se andate nel Ghetto e vi fate dare la Cronaca della vita del Ghetto dal Seicento fino ai giorni nostri – ma la parte contemporanea non c’è più, perché ai tempi dell’occupazione tedesca il tutto è stato eliminato -, il diario di questi anni recita: 13 maggio 1 79 7, anno VII della Repubblica francese, anno Il della libertà italiana, giorno 1 della libertà ebraica, perché è il primo giorno dopo secoli in cui gli Ebrei sono cittadini come tutti gli altri, non sono più discriminati. Un decreto della municipalità che esce qualche giorno dopo abbatte le mura del Ghetto di Venezia – e le abbatte proprio fisicamente, a picconate -, per dare un segno tangibile che gli Ebrei sono cittadini come tutti gli altri.
lo, tante volte, quando si fa un bilancio di queste municipalità, sento molto spesso discorsi nostalgici sul prima e sul dopo, soprattutto sul prima, e quindi vorrei ricordare che, quando gli austriaci arrivano a Venezia nel gennaio del 1798 – e questo non vale solo per Venezia, ma vale anche per tutta l’Italia – uno dei primi atti della Restaurazione , è di ripristinare il Ghetto che, in molte città italiane, sarà tolto solo nel 1848; gli Ebrei piemontesi, ad esempio, ottengono la libertà dallo Statuto di Carlo Alberto alla vigilia della Prima Guerra d’indipendenza. A Padova, uno dei decreti della municipalità padovana, è quello di abbattere il ghetto, e dove oggi esso sorge, quella zona assume il nome di “Via Libera” – gli Ebrei di Padova erano pochi, ma la libertà l’hanno avuta solo per quei pochi mesi; e non è male ricordare che, di questi pochi, buona parte sono spariti fisicamente dopo l’8 settembre del 1943 -.
La vita delle municipalità democratiche è breve: già dopo i “Preliminari di Leoben” del 18 aprile, cominciano a circolare insistenti le voci di una cessione dei Veneto all’Austria- in questo clima di ansia, di tensione, di incertezza prendono corpo e coerenza anche aspirazioni per l’Unità e l’indipendenza di tutta l’Italia da parte di alcuni dei patrioti più radicali; le municipalità venete nascono in un clima di aspra e rancorosa polemica contro Venezia, l’ex capitale, accusata, anche dopo la sua democratizzazione, di voler perpetuare una secolare oppressione sulla Terrafèrma- ogni municipalità si erige a piccola repubblica autonoma e diffida di Venezia che con i francesi ha firmato un trattato di pace, rifiuta ogni prospettiva di unione – e ci sono furenti invettive anti-veneziane da parte dei giacobini padovani, bresciani e bergamaschi -. Ma ormai incalzati dalle voci sempre più inquietanti sui negoziati di pace di Passariano, i giacobini veneti, dopo essersi riuniti nei brevi ed inconcludenti congressi unitari di Milano, Bassano e Venezia, si decidono a scegliere la via di un’unione con la Repubblica Cisalpina, prima tappa di un processo di unità e di indipendenza destinato a – e cito testualmente da un appello pubblicato a Padova, Vicenza, Treviso, Belluno e Rovigo – “unire tutti in una repubblica grande con tutti i popoli liberi d’Italia”. Tra questi patrioti veneti, autentici anticipatori del Risorgimento, spiccano le figure di Fantuzzi, di Dandolo, di Giuliani; tutti sforzi, però, destinati ad essere vani, perché, a Campoformio, Napoleone aveva già ceduto il Veneto all’Austria. E poi respingerà seccamente e brutalmente ogni sforzo di tutti i giacobini veneti di revocare le scelte politiche dei Direttorio e le migliaia di sottoscrizioni dei cittadini veneti per l’unione alla Cisalpina, sottoscrizioni parte spontanee e parte raccolte con insistenti pressioni, soprattutto nelle zone contadine, restano un pezzo di carta. Le municipalità democratiche, come ultimo atto hanno un gesto invero molto triste, che è quello di fare la lista dei giacobini più radicali e più compromessi, ai quali, secondo una clausola aggiuntiva dei Trattato di Carmpoformio, è concesso di emigrare a Milano per non sottostare alle prevedibili rappresaglie dei governo austriaco che, certo, non voleva avere niente a che fare rivoluzionari così accesi.
Un bilancio delle riforme delle municipalità democratiche venete: molte restano sul piano dei progetti, altre riforme sono impostate e in parte realizzate ma vengono poi prontamente soppresse dai nuovi governanti austriaci, e alcune di queste ricompaiono – sempre un po’ più moderate, però – nel successivo governo napoleonico dei Regno d’Italia, dopo la battaglia di Austerlitz e l’annessione del Veneto al Regno Italico. Altre ancora sono però riforme ormai irreversibili: a volte sono riforme semplici . come la numerazione civica, come l’introduzione dell’ora italiana ed ora francese – cioè un sistema diverso di computare le ore -, come la leva militare – riforma forse non gradita a molti, ma che secondo alcuni storici ha in realtà creato un sommovimento della società veneta che andrebbe in larga misura riconsiderato nelle sue conseguenze -. A volte si tratta, come nel caso delle riforme fiscali, di catasti e simili, di riforme che mettono in moto un processo di modernizzazione della società che è più forte della stessa Restaurazione, tant’è vero che, in molti casi, gli austriaci, al momento dei ritorno – o meglio dell’arrivo prima, e dei secondo ritorno dopo il Congresso di Vienna – non le aboliranno. In ogni caso – e concludo – io credo che l’eredità ideale e politica dell’esperienza democratica veneta, come dei resto di tutto il triennio giacobino italiano, vada inserita, e quindi anche valutata, nel più ampio processo di trasformazione della società italiana, che dalle radici giacobine dei ’96 e del ’99 risale, più avanti, negli anni della Restaurazione e dei Risorgimento. lo ho cercato di dare un breve panorama dei cosiddetto “giacobinismo veneto” ed adesso il professar Filiberto Agostini toccherà nello specifico, le municipalità di Padova e dei Padovano perché, come vedremo, una delle caratteristiche salienti di queste riforme è la loro presenza non solo nel capoluogo ma anche nei centri minori, a volte anche in quelli molto minori rispetto a quelli che erano considerati, allora, i cosiddetti “capoluoghi” delle varie province o, meglio, “reggimenti”, come li chiamavano.
Le Municipalità democratiche nel Padovano
Filiberto AGOSTINI
Affronterò la questione dell’insediamento delle municipalità nella parte finale dei mio intervento. Per cominciare, vorrei soffermarmi su altri aspetti: il 1797 costituisce per il Veneto, Venezia e la Terraferma, un anno cruciale e complesso, difficile ed anche violento, un momento di svolta che condiziona in modo determinante la successiva evoluzione storica, e rappresenta un punto di riferimento obbligato per l’azione politica e anche per l’ispirazione ideale delle generazioni successive che si troveranno, a distanza di qualche anno, inserite nel flusso politico risorgimentale, impegnate in questo grande processo unitario; quindi poche stagioni della storia veneta possono vantare una mole così consistente di ricerche storiche sulla caduta di Venezia e, comunque, sugli eventi connessi.
D’altro canto, voi lo sapete, c’è una legge regionale recente, la 37/1996 che ha incentivato in modo specifico le ricerche su Venezia e sulla Terraferma. Pochi momenti del passato di un popolo sono riconosciuti così nettamente spartiacque tra epoche diverse, e pochi momenti hanno avuto anche interpretazioni diverse e controverse.
E’ opportuno, io credo, prima di inoltrarci nella nostra conversazione, evocare alcune vicende politiche e militari, nonché sottolineare alcuni segmenti temporali storicamente ben definiti, al fine di cogliere più puntualmente gli aspetti di questo passaggio dell’antico regime dell’età veneziana a questa nuova età, che noi abbiamo definito “giacobina” – con le puntualizzazioni che Preto ha dato un’età, comunque, che ha connotati fortemente innovativi, sotto tutti i profili, da quello amministrativo a quello giudiziario, da quello forense a quello fiscale. lo desidero sottolineare innanzitutto le vicende belliche – e non può che essere così -, perché tutte le trasformazioni economiche e politiche che sono state introdotte in Italia, e quindi anche nel Veneto, traggono la loro innelludibile origine dalle travolgenti vittorie militari delle annate del Bonaparte, a cominciare dal 1796. Nel 1797 il teatro di guerra si sposta nel Veneto: l’Armata d’Italia sfonda i confini occidentali della Serenissima – apro una piccola parentesi: questa Armata, che, come è stato detto, conta circa 30-35 mila uomini, rastrella risorse dal territorio e ha bisogno di finanziamenti davvero gravosi. Ma quello che è significativo, e ci si può sorprendere, è che quando l’Armata napoleonica giunge in Italia i generali già conoscevano l’entità delle risorse: conoscevano cioè nei dettagli quanto la regione poteva loro offrire. A Parigi, negli archivi militari, c’è un’ampia documentazione che riguarda questo aspetto: per ogni paese, e quindi anche per Monselice e per le frazioni più minute, sono indicati, ad esempio, i numeri dei buoi e delle capre, l’entità della produzione di fieno, il numero delle fonti d’acqua; c’è una descrizione minuta anche del paesaggio. Questo è importante perché, quando le annate giungono, hanno la possibilità di andare, come si suol dire, “a colpo sicuro”, di rastrellare facilmente le risorse -.
L’aspetto militare è importante e decisivo: basti pensare alle battaglie di Castiglione e di Solferino dell’agosto 1796, alla battaglia di Bassano dell’8 settembre, a quella dei Brenta, attorno alle parti di Fontaniva, del 6 novembre e di Arcole – nella Bassa Veronese – dei 17 novembre. In questi mesi spicca la politica di neutralità nei rapporti internazionali; una politica a cui Venezia si è attenuta sin dall’inizio del conflitto. Imparzialità o neutralità sentita come scelta obbligata, una scelta che risulta anche fortemente correlata con quella della conservazione, in politica interna, dei quadro istituzionale e sociale che è ereditato da secoli.
D’altro canto, dobbiamo ricordare che Venezia è incapace, sotto molti profili, e quindi anche sotto il profilo militare, di competere con le altre potenze europee, con gli altri stati-nazione, come la Francia, cioè con le altre monarchie amministrative consolidatesi da secoli.
Quindi, questo 1797, anno cruciale, è scandito da dichiarazioni di guerra, da accordi preliminari, da trattati di pace: tutti appuntamenti fondamentali per il destino politico di Venezia e della Terraferma. lo desidero ricordate alcuni: il 9 aprile, ad esempio, c’è la dichiarazione di guerra contro Venezia; il 18 aprile la stipula – come è già stato detto – dei Preliminari di pace franco-asburgici di Leoben: perché è importante questa stipula? Perché in realtà è un anticipo delle condizioni che poi saranno confermate e perfezionate, otto mesi più tardi, a Campoformio. Ma non dobbiamo dimenticare il 12 maggio, data dell’abdicazione, a Venezia, dei Maggior Consiglio, che fu l’organo sovrano dell’aristocrazia veneziana, a favore di un governo rappresentativo. A Venezia, dunque, il 12 maggio avviene il passaggio dall’ordine aristocratico al sistema repubblicano-democratico, tra l’esultanza di alcuni, il cordoglio di altri e il riserbo dei più: comunque, tra la preoccupazione di tutti per il mantenimento dell’ordine pubblico in città. Il 16 maggio, a distanza di pochi giorni, viene stipulato il trattato franco-veneto: qui Venezia perde anche il suo territorio di Terraferma, che è ormai limitato al solo suolo urbano. La “Regina dell’Adriatico” è spodestata e cade senza gloria- possiamo dire, per usare una locuzione di uno storico, che ” … Venezia è come uno specchio infranto, Venezia è senza vita”. Ed, infine, il Trattato di Campoformio del 17 ottobre, che segna irrimediabilmente la fine della Repubblica di Venezia. Perché? Perché la città stessa, la Terraferma fino all’Adige, le isole adriatiche, l’Istria e la Dalmazia sono cedute, quale compenso, all’Austria di Francesco 11. Questo trattato – che è considerato la seconda caduta di Venezia dopo quella del 12 maggio – suscita sentimenti molto forti nei patrioti, diffonde un senso di smarrimento e di tradimento; basti pensare al levantino Foscolo e ad una delle sue opere più note, Le ultime lettere di Jacopo Ortis.
Ho indugiato dunque su questi aspetti militari, anche diplomatici, perché desidero possa emergere la complessità di questo anno che è veramente fitto di eventi traumatici. A sottolineare l’importanza dei ’97 concorrono anche le vibranti testimonianze, alle quali già ho accennato, di Ugo Foscolo, di Giovanni Pindemonte – fratello dei più noto Ippolito -, e, più tardi, di Ippolito Nievo e soprattutto del suo personaggio, Carlino – cioè Carlo Altoviti -. C’è una produzione immensa e multiforme relativa alla caduta di Venezia fatta di inni, di canzonette, di ritornelli, di sonetti, di canti, di strofe satiriche e di reperti epistolari: una produzione di segno ideologico anche contrapposto, fiorita all’insegna dell’esaltazione o dell’esecrazione degli eventi storici, del sollievo per la caduta dei Leone marciano o dei dolore per la perdita dell’antica libertà democratica. Questa produzione è letterariamente mediocre, è una specie di teatrino grottesco, è un verseggiare senza acume politico; è l’opera di letterati che possono tranquillamente rimanere nell’oblio. Tuttavia è importante, e desidero sottolinearlo, perché direttamente o indirettamente, questa produzione esprime l’eccezionalità dei momento, lo straordinario impatto che è anche emotivo; impatto determinato dalla caduta di uno stato plurisecolare, determinato dalla guerra, determinato da Campoformio. Una produzione che, per certi aspetti, può essere solo paragonata, per quantità o qualità, a quella fiorita a Venezia dopo la Battaglia di Lepanto. L’eccezionalità di questo momento la si può cogliere anche attraverso le pagine di numerosi phamplet, giornali, libri che escono dai torchi delle tipografie in questi mesi democratici; e ancora, dal profluvio dei diari, di memorie, di cronache – a volte queste cronache hanno un vigore speculativo, un acume politico e una vivacità stilistica; cronache che comunque e ovunque proliferano numerose nel ’97: pensiamo alle cronache parrocchiali, conservate numerose negli archivi parrocchiali, non ancora sufficientemente analizzate ed evidenziate – li Padovano non sfugge a questa nuova consuetudine scrittoria, cioè all’uso degli inchiostri per finalità politiche, per evocare eventi privati ed eventi pubblici. Nella primavera dei ’97 si scioglie un vincolo tra la Terraferma e Venezia, un vincolo che è vecchio di quattro secoli; le città e le province che quattro secoli prima, per spontanea dedizione o per effetto di conquista si erano congiunte – siamo nel primo Quattrocento – alla Dominante, e che in progressione di tempo avevano sperimentato una condizione di crescente sudditanza nei confronti di Venezia, queste città vengono spogliate della loro reale autorità. Ora, nel ’97, tra aprile e maggio, ripudiano ogni controllo centralistico ed autoritario che viene da Venezia; ripudiano, come si suol dire, la burocrazia” veneziana. La rottura di questo legarne, che è molto difficile e anche delicato ma consolidato, è politicamente rilevante – naturalmente dà dei riflessi anche sul piano economico e anche su quello sociale è una rottura che diventa segno e simbolo della :fine di un’epoca: dà proprio il senso della rottura col passato. Perché? Perché ora, nel fondare un nuovo ordinamento politico – e il nuovo ordinamento politico sarà dato dalla municipalizzazione diffusa – , un nuovo stato, si guarda – ma evidentemente non da tutti – non più a Venezia, ma con convinzione e con speranza si guarda oltre il Mincio, si guarda a Alano, si guarda alla Cisalpina: questo, nella storia italiana, fra Settecento e Ottocento, è un fatto straordinario; è qui, in realtà, che si avvia il Risorgimento italiano. Tra aprile ed ottobre l’idea nazionale e le istanze unitarie conoscono una stagione, che possiamo anche considerare felice, di proselitismo, e una prospettiva anche di realizzazione, quale non si era mai verificata in passato.
Gli ideali democratici e repubblicani animano i patrioti e si traducono in alcuni appuntamenti, in alcuni congressi che sono già stati citati – a Alano il 12 giugno, a Bassano, che è quello più importante, il 15 luglio, a Vicenza il 28 agosto, a Venezia i primi di ottobre. In realtà, questo nuovo spirito, questa nuova volontà unitaria è priva di collegamenti organici, e quindi è votata al fallimento, anche per la volontà superiore di Napoleone.
Il Bonaparte non vede in realtà di buon occhio la Cisalpina, e soprattutto non vede di buon occhio il consolidarsi di uno stato nella Terraferma veneta, uno stato capace comunque di interferire sulle sue operazioni, sui suoi piani militari in Italia.
Ho citato lemunicipalità: nello spazio di circa quattro settimane – e quindi molto rapidamente – e in connessione anche con l’avanzata degli eserciti francesi, dal 25 aprile al 22 maggio, in uno scenario geopolitico che è certamente incerto e violento, vengono insidiate nella Terraferma le prime municipalità democratiche repubblicane, e queste vengono insidiate sulle ceneri, possiamo dire, delle antiche istituzioni territoriali dello Stato marciano, cioè sulle ceneri delle podestarie, dei capitaniati, dei vicariati, cioè di quell’ ordinamento che ha un’origine antica, sulle ceneri di quelle giurisdizioni locali di origine feudale, di quelle oligarchie fondate anche sull’intreccio tra funzioni amministrative e funzioni giudiziarie. Per fare qualche esempio: Camposampiero, Castelbaldo, Cittadella, Este, Monselice, Montagnana e Piove di Sacco costituivano la sede di podestarie; invece Anguillara, Arquà, Conselve, Mirano e Teolo erano sedi di vicariato.
Tutta questa realtà quindi, che è complessa ed intrecciata, viene repentinamente e brutalmente cancellata; la rivoluzione giacobina e democratica fa dunque piazza pulita di tutti questi ordinamenti, in pochissimi giorni. Quindi questa è una stagione davvero rivoluzionaria: ma è anche una stagione entusiasta, utopista, disordinata – se volete – ed ingenua nelle sue illusioni libertarie; esaltata da un lato e ferocemente detestata dall’altro; una stagione ricca di fermenti innovativi e di speranze, di tradizioni che sono discusse e, a volte, accantonate, di realizzazioni sui terreni più diversi della convivenza sociale, dall’economia al diritto alla religione.
Il segno tangibile di questa attività, che è un’attività frenetica, un’attività di riforme, è la raccolta dei proclami, degli avvisi e dei decreti, che riempie addirittura sei volumi a Padova, quattro a Verona, tre a Vicenza. Ogni municipalità, anche la più piccola, pubblica il suo proclama, che è sempre aperto da due di quelle parole che possiamo considerare magiche della grande Rivoluzione: libertà ed eguaglianza. Iproclami sono documenti importanti sia di natura ideologica che di natura organizzativa, se volete ingenui nell’enunciazione – che è altisonante e pomposa –, proclami che sono dettati da persone che si sono trovate ad essere vincitrici; dettati da uomini convinti che solo sovvertendo le vecchie regole ed abbattendo le vecchie strutture sia possibile creare una società democratica, una società che tanto sognavano, una società come antitesi del regime aristocratico vigente.
Proclami, decreti: questi nuovi governanti vogliono promuovere lo spirito patriottico, vogliono consolidare il sentimento di orgoglio nazionale e far crescere, fra la popolazione, un senso di lealtà verso i nuovi organismi. Nelle città , Padova, Vicenza, Rovigo, Treviso, Belluno e Udine, sono immediate le municipalità “centrali” – così sono definite -, che sono costituite da un numero variabile di “cittadini-ministri” eletti in assemblee appositamente convocate, composte da uomini di varia estrazione sociale, anche popolare, in ossequio ai principi della democrazia. Queste municipalità centrali costituiscono il cuore di un congegno che deve farsi carico di un moto che è storicamente articolato: questi organismi municipali detengono, almeno sulla carta, il potere legislativo ed esecutivo e sono, come si diceva allora, “il centro di tutte le podestà”, agiscono poi come organo di ispezione, di impulso dell’intera attività pubblica della città e della provincia, fino ad assolvere, ed è evidente, compiti propriamente politici.
Sotto il profilo organizzativo, ciascuna municipalità centrale e ciascuna municipalità urbana, sono ripartite in un certo numero di comitati, da sei a otto, che possiamo equiparare a piccoli ministeri, con uffici gerarchicamente coordinati e con personale impiegatizio che è regolarmente retribuito; comitati le cui decisioni acquistano però legittimità solo in virtù dei voto collegiale dei municipalisti. Questo nelle città capoluogo; nelle cittadelle, nei borghi più importanti della provincia, sono immediate invece le “municipalità cantonali”: a Monselice, a Teolo, a Bovolenta, a Camposampiero, ad Este, a Piove, a Montagnana, a Cittadella, a Carrara, a Pontelongo, a Battaglia, a Dolo: sono le dodici municipalità cantonali. Quali sono le funzioni? Innanzitutto non funzioni decisive e fondamentali – com’è ovvio -, dei tipo di quelle previste per le municipalità centrali: qui, localmente, le mansioni sono tecnico-esecutive, soprattutto nei settori importanti della polizia e dell’annona.
Io direi – e questa è la mia impressione -che, più che organi capaci di autonomia amministrativa e facoltà decisionale, queste municipalità appaiono rami terminali di un sistema – dai connotati ancora provvisori – che trae linfa vitale dalla tutela militare francese. In questa cornice, la stessa elettività alle cariche municipali appare molto aleatoria, perché è degradata dalla subalternità ai generali francesi. Illuminante, in questo senso, è il proclama pubblicato dal generale Guglielmo Brun a Padova il 16 giugno 1797 nel quale è stabilito che possono sussistere solo le municipalità periferiche – cioè quelle cantonali, quelle di distretto – approvate dall’autorità militare, sia nel numero, sia nella dislocazione ed organizzazione interna, senza interferenze dei patrioti locali. E’ fatto obbligo a questi apparati amministrativi di “conformarsi” – e qui uso un termine dei tempo – ai bisogni della municipalità centrale – nel caso specifico la municipalità cantonale di Monselice doveva conformarsi alla municipalità centrale di Padova -; conformarsi nel campo della giustizia penale, dei dazi e degli appalti, delle esazioni e delle imposte: nessuna iniziativa estemporanea ed indipendente è consentita ad esse.
Quindi, come voi capite, siamo di fronte ad una sovranità particolarmente limitata; a mio avviso, molto, moltissimo dipende da Napoleone e dalle volontà dei generali che attraversarono questo territorio e rastrellarono le risorse.
Per concludere, io vorrei citare una descrizione che risale al 1798, cioè all’anno dei ritorno degli austriaci. E testo da cui ho tratto questo passo è una sorta di atlante che venne pubblicato a Lipsia nel 1798; è in tedesco, ma io vi leggerò la traduzione. Questa descrizione è relativa al territorio di Monselice:
L’aria è ovunque molto pura, le stesse montagne euganee sono più colline che montagne; vi crescono in grande quantità olive, uva squisita, arance ed altra frutta, oltre a cereali, frutta, canapa, riso, limoni, melangoli, fichi,datteri, peschi, meloni, carciofi, asparagi, cavoli, erbe aromatiche; nell’intera zona pianeggiante sono eccellentemente coltivate viti che, alla maniera italiana, emergono serpeggiando tra i viali di olmi, salici e pioppi; sono tese, queste viti, come ghirlande da un albero all’altro, e in un certo qual modo, fanno da recinto ai campi di cereali. Inoltre, si incontra in queste zone, un’abbondanza dipascoli per l’allevamento del bestiame e di gelsi per la sericoltura. In altre parole questa zona è, nel vero senso della parola, un paradiso, è il giardino d’Europa.
Poi, scendendo in dettaglio proprio per quanto riguarda Montselice o Moncelese, scrive
Si trova, questo paese, in una posizione molto piacevole, sulla riva di un canale ampio e navigabile, che da Este conduce a Padova. Monselice è una bella città circondata da mura, nelle quali si trovano ancora tracce di precedenti opere di fortificazioni ; ha 8900 abitanti, che vivono molto bene grazie alle frequenti fiere eal fiorente commercio. C’è anche una chiesa collegiata e diversi begli edifici e chiese.
La rivoluzione fiscale nel Padovano (1797)
Giovanni SILVANO
Affronteremo un argomento molto tecnico; c’è forse necessità di qualche nota introduttiva che riesca a spiegare in che cosa è realmente consistita questa riforma, se non, addirittura, rivoluzione. Come è già stato ricordato, l’esercito francese che è qui, qui come in molti altri luoghi della Terraferma, è a totale carico delle Amministrazioni locali. Esiste una documentazione già dai primissimi mesi dell’Amministrazione democratica padovana che stabilisce, grosso modo in 10 milioni di Ere venete, il deficit dell’amministrazione del Padovano. Dieci milioni di lire venete contratte, per la stragrande maggioranza dei casi, con tutti coloro i quali, nei mesi precedenti, avevano fornito all’esercito francese generi di prima necessità. Bisognava dunque arrivare a trovare un modo per onorare questi crediti che erano stati fatti all’Amministrazione; non è cosa facile, non lo è da un punto di vista teorico e non lo è assolutamente da un punto di vista pratico e concreto, arrivare a riscuotere tanto denaro nel giro di pochissimi mesi.
In realtà – penso di poterlo dimostrare – a Padova, ma anche a Treviso e a Vicenza, si riuscì, proprio affrontando questo problema, non solo a risolvere – almeno in parte – la questione dei deficit – che è una questione rilevante, ma non è quella che a noi forse interessa di più -, ma si arrivò anche ad immaginare, e dopo a realizzare nei fatti, un estimo, un sistema fiscale, un sistema di esazione che, in una qualche maniera, per i democratici padovani, rappresentava la realizzazione della libertà e dell’eguaglianza tra i cittadini dei nuovo stato.
La sfida è aperta: i primissimi provvedimenti in campo fiscale vanno naturalmente a toccare i consumi, cioè i dazi. Intervenire su questa materia è relativamente semplice: ogni municipalità ha emanato una serie di decreti con i quali abolisce i dazi ritenuti più “odiosi” – era questa la parola usata -, cioè quei dazi che colpiscono i consumi di farina, pane, olio e quindi di quei generi che entravano all’interno di ogni famiglia. A riguardo può essere interessante sentire un po’ con che tipo di argomentazione e con quale prosa viene proposta questa politica di abolizione dei dazi; a tal proposito c’è un significativo proclama della municipalità di Lendinara del 18 maggio, in cui si dice:
Misero contadino, hai tu mai compreso che li pochi denarii da te guadagnati con il sudore ditutto un giorno, ti venissero in parte rubati da chi ti comandava? E che se la tua polenta, il tuo pane non bastavano al nutrimento della tua innocente famiglia, era perché il tirannico passato governo era iniquo? Il pane, la farina gialla, tuo prediletto e caro cibo, erano aggravati dai dazi!
Dopo questa impostazione della materia, naturalmente veniva emesso il decreto vero e proprio che aboliva il pagamento di questi dazi; provvedimenti di questo genere se ne trovano a decine, oserei dire a centinaia.
Ma il punto più difficile da risolvere è quello che riguarda altre imposte, cioè quelle che venivano definite in epoca veneziana, le cosiddette graveze de mandato domani. Che cosa sono? Tutto il territorio dello Stato veneto era sottoposto al pagamento di queste imposte; esse vengono pagate per secoli nella storia della Repubblica veneta solamente dalle persone che abitano nel territorio, che possiedono beni nel territorio e nello stato e che quindi non sono né veneziani né ecclesiastici; in altre parole, il sistema fiscale veneto – detto sinteticamente – è costituito in maniera tale che lo Stato, attraverso di esso, determina la condizione del contribuente, in maniera rigorosissima e precisissima, nonché le sue obbligazioni fiscali. Pertanto il possedere a Monselice, poniamo, o ad Este o a Belluno, un determinato fondo non comportava, nello Stato veneto, una obbligazione fiscaleuguale per tutti, ma l’obbligazione era fissata e il tipo di imposta pagata era diversa in relazione alla condizione dei proprietario; quindi, i veneziani pagavano, poniamo, soltanto la decima e il companatico, tutti gli altri avevano altri tipi di tasse che dovevano onorare. Qui, badate bene, non si tratta tanto di quantificare, se sia più pesante la decima o il companatico, cioè se sia più pesante la tassa che paga il veneziano piuttosto che quella che paga l’abitante di Monselice o quello di Padova o quello di Treviso; la questione che a noi interessa sottolineare è che esistono trattamenti fiscali diversi, in relazione a vivere o meno nella Dominante
Questo sistema, che dura da secoli – dura quasi dal momento della Dedizione, cioè dal 1404 per Padova, fino al1797 -, nel 1797 viene cassato dall’ordinamento. Anche gli ecclesiastici verranno equiparati ai contribuenti laici; non esiste più quindi, se non per motivi d’ordine, per motivi di organizzazione del nuovo estimo, la categoria degli ecclesiastici, che sono responsabili a loro volta di obbligazioni fiscali diverse sia da quelle che pagano i veneti veneziani, sia da quelle che pagano i distrettuali.
Io ho l’impressione che l’avere individuato questo meccanismo sia già stato un passo avanti all’interno di una rivoluzione fiscale ancora più ampia. Perché ancora più ampia? Perché vi era un punto sul quale bisognava confrontarsi: se è vero che per secoli era esistito questo sistema di obbligazioni fiscali diverse, queste apparivano anche nel momento precedente all’esazione, cioè nel momento della rilevazione della ricchezza; cioè tutti gli estinta della ricchezza imponibile nel territorio dello Stato della Repubblica rispecchiano queste differenze sociali di condizioni tra i contribuenti. E’ quindi necessario, oserei dire vitale per queste nuove Amministrazioni democratiche, disporre – e disporre nel giro di qualche settimana, di qualche mese – di una rilevazione nuova della ricchezza, che possa dare una qualche sicurezza su cosa e su quanto fosse effettivamente da porre sotto la nuova imposizione. A questo punto, la municipalità di Padova – e quindi coinvolgerà anche il territorio di Monselice e altre municipalità della Terraferma, in particolar modo Treviso e Vicenza -, chiede a tutti i cittadini di presentare una nuova polizza d’estimo: nel Padovano vengono presentate poco meno di 6 mila denunce, 6 mila nuove polizze. li problema è costringere i veneziani e gli enti ecclesiastici che possiedono beni nella provincia di Padova a presentare al Dipartimento Quarto del Governo Centrale dei Padovano una dichiarazione non tanto, poniamo, di tutti i beni dei Monastero della Celestia di Venezia, ma di quanto la Celestia di Venezia possedeva nel Padovano. Io non so bene se a riguardo siano state usate le baionette o altre forme di persuasione per indurre gli abitanti dei Veneto a presentare le denunce, ma soprattutto gli ecclesiastici – e questo lo si evince dalle date che sono riportate in ogni polizza – obbedirono quasi tutti: circa 770 enti ecclesiastici nel Padovano portano le loro denunce al Dipartimento. Più lenti furono i veneziani, ma anche loro – e sono nell’ordine di qualche migliaio – portarono, tra il luglio, l’agosto e il settembre dei ’97, a Padova, le denunce della loro ricchezza di quella che allora si chiamava la “rendita netta” posseduta nel Padovano. Pertanto, proprio da un punto di vista archivistico, possiamo dire che a Padova, senz’ombra di dubbio, e certamente anche a Vicenza e a Treviso, esiste la serie completa di questo estimo democratico, che per il 1797 ritrae la ricchezza imponibile dei contribuenti, ripeto, laici, ecclesiastici e veneziani. Si badi, peraltro, che all’interno di queste polizze non è descritta solamente la ricchezza immobile – non ci sono solo i campi e le case -, ma ci sono anche i beni mobili, cioè le rendite, che ad esempio i monasteri ritraevano dall’aver dato “a censo” il denaro. Nel sistema fiscale veneziano questo tipo di rendita non è tassata, e noi sappiamo che esistono famiglie veneziane che , pur possedendo pochi beni immobili, avevano comunque una ricchezza mobile altissima.
Pertanto, a me pare che si sia fatto un passo significativo verso l’individuazione della rendita netta dei contribuente, in maniera più equa di quanto non lo fosse mai stato prima.
Io credo che questa riforma sia stata pienamente realizzata, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista pratico. E i risultati si videro. Perché? Su questo nuovo estimo furono “piantate”, se così si può dire, due nuove imposte straordinarie, che si chiamano taglione e imprestito e, dalla riscossione di queste due nuove imposte si arrivò, per il Padovano, alla riscossione di oltre 5 milioni di lire venete. Altrettanto l’Amministrazione padovana ricavò dalla vendita dei beni ecclesiastici- in questo modo, pertanto, si può dire che nel giro di quattro mesi – da settembre a dicembre dei ’97 – il deficit della finanza padovana fu coperto.
Forse può essere utile, vista anche la sede in cui ci troviamo, dopo aver delineato il quadro teorico della rivoluzione fiscale operata dai giacobini, vedere come può essere usato questo strumento; ed io ho individuato – soprattutto nell’estimo ecclesiastico, che è quello che ho studiato più a fondo – alcune denunce fatte da enti ecclesiastici di Monselice. Posso informarvi del fatto che le denunce portate qui a Monselice manifestano una ricchezza consistente degli enti ecclesiastici nel ’97: addirittura uno solo dei benefici che sono all’interno della Chiesa Cattedrale della Collegiata di S. Giustina arriva a denunciare poco meno di 5 mila lire venete. Ora, 5 mila lire di denuncia come rendita netta corrisponde ad un patrimonio piuttosto elevato, un patrimonio senz’altro superiore alla media tra i contribuenti ecclesiastici dei padovano. Ma anche i benefici meno ricchi all’interno della Chiesa di S. Giustina, mi pare, non arrivino mai a meno di 838 lire: questo è il meno dotato tra tutti i benefici, gli altri gli sono tutti superiori.
Si badi bene che la legge istitutiva del nuovo estimo e dei taglione stabiliva, come imponibile minimo per essere ammessi alla contribuzione, 620 lire venete. All’interno degli enti ecclesiastici di Monselice non ne viene escluso alcuno dal pagamento dei taglione: quindi le loro rendite sono tutte superiori alla soglia delle 620 lire. lo non ho fatto la somma della rendita ecclesiastica di Monselice; comunque nú sembra sia abbondantemente sopra le 15-16 mila lire venete. A detenere una certa ricchezza qui a Monselice è anche la municipalità: essa presenta la sua polizza d’estimo che viene fissata in 141 50 lire venete; quindi possiede beni fondiari in quantità notevole. Ho poi ritrovato la polizza di un cittadino di Monselice, o meglio di un gruppo di cittadini, i fratelli Bianchini, che denunciano 19800 lire venete: quindi una rendita davvero molto consistente ed elevata.
Monselice non contribuì solamente all’imprestito e al taglione: Monselice fu anche piuttosto generosa per quello che veniva chiamato “l’imprestito patriottico”; io ho potuto stabilire che cento cittadini di Monselice hanno contribuito con una cifra di poco inferiore alle 65 mila lire venete, così distribuite: in 5 persone hanno offerto circa 18-20 mila lire, tutti gli altri tra le 500 e le 2 mila lire. L’imprestito patriottico non è un’imposta, ma la municipalità chiama un certo numero di cittadini a contribuire.
Forse posso concludere ricollegandomi a ciò che è già stato detto dai colleghi: il ’97 segna, al di là di tanti dettagli, un cambiamento radicale tra la città e la campagna: non esiste più il rapporto tra Dominante e Dominata, e, a sua volta, tra città del territorio dello Stato e un contado che è solo da sfruttare; ora, soprattutto da parte dei membri del governo centrale, si tenta di dare una svolta netta a quelle che erano la vita sociale e politica dei vecchio regime, anche attraverso una maggior responsabilizzazione delle campagne. Certo non dobbiamo pensare ad una capillarità eccessiva; ma rimane il fatto che, nei governi centrali, ci sono rappresentanti della periferia. Esistono comunque organi amministrativi che riescono a diffondere l’ordine che viene dato da Padova di svolgere un estimo e di raccogliere le polizze anche nei territori più lontani da Padova.
Io credo che in questo risieda veramente una rivoluzione epocale importante, che va proprio nella direzione opposta rispetto a quella che per quattro secoli aveva guidato l’evoluzione regionale, e questo in tutta la penisola. Tutti gli stati regionali italiani, dal Quattrocento al Cinquecento, sono fortemente centralizzati: il territorio conta assai meno. Dal ’97, mi sembra invece che il territorio cominci a far sentire la propria voce.
La demografia a Monselice nel Settecento
Franco FASULO
Per quanto riguarda la demografia, il 1797 è un anno come tutti gli altri; quindi, io cercherò di arrivare alla caduta della Repubblica di Venezia partendo dall’inizio dei secolo.
La situazione demografica di Monselice nel corso dei Settecento è abbastanza chiara: registri parrocchiali – ci sono cinque parrocchie: S. Giustina, S. Paolo, S. Martino, S. Tommaso, S. Niccolò di Marendole -, le anagrafi venete – dal ’66 al ’90 -, i Daziomacina dei 1787 -che è una lista nominativa di tutti i capifamiglia divisi in tre classi, sulla base dei consumo di pane di frumento (e allora sono benestanti: poco più dei 5% della popolazione di Monselice), di pane misto (che è frumento e cereali minorii, ed è circa il 10% dei monselicensi), ed infine dì polenta ( ci sono allora gli “infimi” o “miserabili”, come li chiamavano, categoria che raggruppa circa l’85% della popolazione di Monselice); sono esclusi sia i questuanti che i bambini sotto i 5 anni di vita, che non pagano alcuna tassa. Quindi abbiamo, attraverso questa serie di documenti d’archivio, una situazione abbastanza chiara: Monselice è abitata da una popolazione sostanzialmente molto povera – ci sono casi di morti d’inedia, morti di freddo, morti di fame -; la stragrande maggioranza della popolazione si limita a lavorare nei campi, le cui rendite vanno a finire nei forzieri dei signori, che sono per il 50% ed oltre dei nobili veneziani: quindi le rendite escono da Monselice e vanno a finire a Venezia, mentre qui restano solo le briciole: i salari agli agenti, ai contadini, ai gastaldi o fattori, a seconda delle dimensioni della proprietà; quindi, diciamo, qui si registra solo una fuga della ricchezza, e non certo un aumento dei capitali. Un altro 25% della popolazione – se si prendono per buoni i dati della Redecima dei 1740 – possono essere considerati i proprietari; sono solo una piccola parte dei monselicensi: ci sono solo 7-8 famiglie nobili, una ottantina di famiglie borghesi che posseggono qualche campo – mediamente una decina -, mentre gli altri 8 mila e rotti abitanti di Monselice non posseggono assolutamente nulla, e quindi vivono stentatamente la loro giornata di lavoro molto pesante e le conseguenze si vedono: gran parte della gente soffre e muore giovane – la speranza di vita alla nascita è di circa 30-35 anni, e teniamo presente che soprattutto nella seconda metà dei secolo le condizioni di vita sembrano peggiorare, tant’è che la mortalità infantile passa dal 25% al 50% nel corso dei secolo -. Questi dati li ritroviamo anche in alcune tesi di laurea redatte dalle dottoresse Gialain, Quaglio e Sorze, che parlano di questo continuo peggioramento delle condizioni di vita dei bambini ed, evidentemente, delle loro madri, poiché se un bambino muore prima di un anno di vita muore anche per le condizioni di miseria e di sottonutrizione della madre che lo allatta. Fornisco un altro dato: solo il 5% delle persone arriva a 60 anni; i sessantenni, secondo l’anagrafe – conosciamo i dati per i soli abitanti maschi, ma possiamo supporre che per le donne sia analogo – sono quindi veramente.
La speranza di vita, come avete visto, è molto bassa; abbiamo tutta una serie di indici del peggioramento progressivo delle condizioni di vita nel corso dei Settecento: aumenta il numero dei suicidi per annegamento, ma aumenta anche il numero delle morti violente dovute a coltellate, archibugiate, risse d’osteria, ma anche assassinii per rapina.
Manca quasi totalmente l’assistenza medica: nella visita pastorale dei 1762 si dice che ci sono quattro medici presenti nella città, ma quasi nessuno degli ammalati ha la fortuna di vederli prima di morire, tranne che non si tratti delle famiglie dei maggiorenti dei paese. Ci sono, è vero, due ospedali: ma nel primo – sempre secondo la visita citata – ci sono plures mulieres pauperes, cioè si tratta di un ospizio di povere donne, mentre nel secondo sono accolti i poveri pellegrini in due stanze, una per gli uomini e una per le donne, cioè manca completamente un senso di ospedalizzazione dell’ammalato e di un medico che lo curi.
Ma, valutando più da vicino i dati numerici, vediamo attraverso le cinque parrocchie come, nel corso dei Settecento, declini la popolazione di Monselice: dalle 9035 anime alle 1713. Alla fine del dominio veneziano – i dati sono dei 1790 – gli abitanti sono 8367, divisi in maniera diversa fra le parrocchie: la parrocchiale maggiore di S. Paolo, che oscilla tra i 3000-3400 abitanti, ed è estremamente diffusa nel territorio – comprende infatti i quartieri di Pozzocatena, Capodimonte, Borgo Costa Calcinara, Vò de’ Buffi, Schiavonia, Savelion de’ Molini -; l’importante parrocchia di S. Giustina – considerata nella già citata visita parrocchiale come suddivisa in cinque parrocchie, poiché comprendeva un arciprete e quattro mansionari -, che, nonostante la ricchezza degli abitanti, è la più ridotta per quanto riguarda il numero di anime presenti: 2243 nel ’66, 2300-2500 qualche anno più tardi; poi c’è S. Martino, che è situata invece dall’altra parte della città – comprende le zone della Stortola, Arzerdimezzo, Vetta, etc. – e registra nel suo territorio la presenza di circa 1700 abitanti, suddivisi in 398 famiglie; la parrocchia di S. Tommaso, che è la più piccola con 436 abitanti e, infine, S. Niccolò di Marendole. Queste sono quindi le dimensioni delle parrocchie: c’è stata una crescita progressiva dal Cinquecento al 1713, e poi si è registrato un declino progressivo. Che significa tutto ciò? Che c’è un peggioramento delle condizioni economico-sociali della popolazione; il Seicento è riuscito a superare la crisi grazie all’introduzione del mais ma, nel Settecento, lo stesso mais è la causa prima di malattie quali la pellagra, lo scorbuto e di tutte quelle morti dovute a “pazzia” – molti degli annegamenti stessi sono probabilmente dovuti agli effetti perversi di una sottoalimentazione.
Gli unici benestanti a Monselice sono una cinquantina di persone, che vivono di rendita: per lo più si trovano nella parrocchia di S. Giustina, ma 19 sono a S. Paolo, 6 a S. Martino, 1 a S. Tommaso, nessuno a Marendole; la gran parte della popolazione è costituita da persone povere.
Monselice è una quasi città, perché pensate che Treviso ha 10 mila abitanti e Rovigo appena 5 mila, mentre la stessa Padova ha 30 mila abitanti. L’arrivo dei francesi giunge in un periodo di crisi demografica: c’è una lunga stagnazione che si accentua nel corso del Settecento. Del resto, la situazione è analoga anche nei centri vicini: Pozzonovo, che nel 1702 aveva raggiunto i 1400 abitanti, ne ha persi il 1 0% nel 1790; Tribano cala da 3295 a 3069; Solesino addirittura ne perde 500 e scende a 1960; Battaglia da 1526 scende a 1104; quindi , come vedete, la crisi è generalizzata.
E’ molto difficile sopravvivere a Monselice se non si è nobili o ecclesiastici: ci sono 25 preti con beneficio e 51 religiosi, 72 monache e 38 professori di arti liberali, che costituiscono gli strati più alti della borghesia monselicense- ci sono alcuni bottegai e commercianti – un’ottantina in tutto, ma non sono tutti benestanti -e la gran parte della popolazione è rappresentata da circa 300 artigiani e 2 mila lavoranti in campagna che sono, sostanzialmente, mezzadri in piccola parte, fittavoli e braccianti in gran parte. Questuanti e persone senza entrate o mestieri sono ai gradini più bassi della scala gerarchica della società; secondo la lista dei Daziomacina sono molti più di quanti siano censiti nelle anagrafi, sono cioè circa 500 – e quindi in numero più che doppio rispetto a quello delle anagrafi -. Ma questa fonte fiscale sembra abbastanza interessante perché la stima – si paga una tassa diversa se si mangia il pane bianco, il pane misto o la polenta – dà una proporzione molto elevata di persone che vivono miseramente. Ci sono 4612 “infimi”, cioè persone che vivono di polenta, e più di 500 questuanti, contro 376 benestanti – cioè che vivono di pane bianco – e 603 “mediocri” che sono probabilmente quei borghesi un po’ più benestanti o quei fittavoli che hanno in affitto più campi della media: quindi possiamo calcolare che almeno l’80% della popolazione vive in condizioni estremamente misere. Ci sono delle riserve da fare sull’attendibilità di questa come di tutte le altre fonti fiscali. Da che cosa nasce questa povertà? Come dicevamo prima, la Redecima dei 1740 aveva testimoniato che oltre 5500 campi appartengono a “fuochi veneti”, cioè hanno un altro sistema fiscale – ci sono due sistemi di rilevamento fiscale: a “fuochi veneti” per i veneziani – i nobili veneziani, soprattutto- i soli Duodo hanno qui a Monselice più di mille campi, oltre ad una serie di case e di palazzi- i Marcello hanno, tra le altre cose, 250 campi – e a “fuochi foresti” per i monselicensi
Oltre 5500 campi, più della metà della superficie censita, appartiene a 50 famiglie di nobili veneti che hanno anche 187 case, 60 casoni, 9 case domenicali – cioè signorili -, 3 palazzi, 2 priare – cioè le famose cave di pietra, che producono una vera e propria ricchezza ma anche 27 botteghe e 5 osterie; ci sono anche 14 non nobili veneziani pure proprietari: alcuni sono enti ecclesiastici – S. Zaccaria, S. Anna, S. Michele di Murano – e ci sono 194 campi che appartengono a enti civili – cioè il Monte di Pietà, la Scuola della Carità e la Commissione Corego -. Tra i beni dei sudditi, sì e no la metà di essi appartiene ad 8 famiglie nobili di Monselice e a 83 non nobili, 10 enti ecclesiastici, 3 enti civili – come risulta dalla Redecima del 1740 -. Ci sono poi anche 2961 campi che appartengono a nobili padovani e anche ad enti ecclesiastici ed enti civili padovani- quindi la grande proprietà è sostanzialmente veneziana: oltre ai Duodo, che possiedono mille campi, ci sono anche i Giustiniani, i Renier, i Bon, i Marcello. Originari di Monselice sono soltanto i conti Oddo, che possiedono 455 campi; poi ci sono i Bianchini, i Cortuso, i Girotto, i Gualtieri; la parrocchia di S. Paolo e quella di S. Giustina hanno parecchie proprietà- un centinaio di campi sono posseduti anche dai frati di S. Francesco e S. Domenico. Poi ci sono alcuni padovani, fra cui Buzzacarini, Borromei, Zuccato, Fflottori; inoltre, il Seminario di Padova, i monaci di S. Giustina, quelli di S. Agostino, l’ospedale di Padova, la Ca’ di Dio e il Monte di Pietà.
Quindi la crisi demografica che colpisce Monselice nella seconda metà dei Settecento nasce dalla difficile condizione di vita dei contadini poveri, che vivono facendo i braccianti in queste grandi proprietà nobiliari; e quindi da questo nasce la miseria, la fame endemica, il fatto che un bambino su due muoia prima di compiere un anno, al violenza, le risse. Cresce persino il numero dei figli illegittimi; e voi sapete come il loro numero sia molto difficile da stimare, perché probabilmente molti degli illegittimi nati a Monselice venivano portati a Padova o altrove.
In questa situazione di grave disagio economico e sociale il cambio di regime politico lascia dei tutto indifferente la maggior parte degli abitanti dei Veneto né, d’altra parte, i cosiddetto “giacobini” padovani hanno programmi rivoluzionari – di rivoluzione sociale, come dicevano i miei predecessori -; i salotti delle contesse Papafava e Ferri, che erano i due centri dei giacobinismo padovano, non erano certo frequentati da innovatosi che avessero idee di rivoluzione sociale e, sostanzialmente, i loro interessi non coincidevano con quelli dei braccianti e dei fittavoli poveri che costituivano la gran parte degli abitanti di Monselice. Quindi l’arrivo degli austriaci, il ritorno dei francesi, la restaurazione asburgica dopo il 1814, non mutano la vita alla gente comune, che continua la triste vicenda di fame, di sottoconsumo e di aumento di mortalità, di crisi per buona parte dell’Ottocento.
Le vicende politiche non mutano: cioè non muta la vita della gente comune, occupata com’è nell’affannosa ricerca di quel cibo quotidiano: la politica interessa i tiparoni”- sia nell’epoca veneziana, sia in quella asburgica che in quella risorgimentale c’è questa sostanziale disattenzione delle masse contadine nei confronti dei problemi politici, proprio per le condizioni di vita talmente disperate che non rendono possibile il lusso di occuparsi di politica.
L’assetto sanitario pubblico nella Bassa Padovana (1797-1815)
Luisa MENEGHINI
Io cercherò di farvi una veloce panoramica su quella che è l’evoluzione dei sistema sanitario pubblico nella Bassa Padovana tra il 1797 e il 1815 – sistema che è stato sostanzialmente ereditato dalla Repubblica di Venezia, e poi come questo sistema abbia attraversato un periodo ricco di avvenimenti, qual è stato quello che va dal 1797 al 1815.
Il passaggio dal XIV al XV secolo si può dire rappresenti per la storia della sanità un momento di svolta e, allo stesso tempo, di inizio fondamentale perché, se da un lato determinò l’uscita di questo settore dal provvisorio nel quale era stato relegato per entrare a far parte stabilmente delle strategie politiche delle diverse istituzioni governanti, dall’altro si può ritenere il punto di partenza di una sanità intesa come pubblica. Già nel secolo successivo, comunque, i maggiori stati dell’Italia settentrionale riuscirono ad elaborare una organizzazione sanitaria vera e propria, con strutture d’avanguardia, notevolmente in anticipo sul resto dell’Europa, che si svilupparono in una serie di istituzioni e regolamenti, per certi aspetti, modello.
Nello specifico della Serenissima Repubblica e dei territorio che in questo momento a noi interessa, riscontriamo un evolversi della situazione che ben si inquadra in questa panoramica generale; fin dal 1486, infatti, il governo veneziano aveva deciso l’istituzione di un Ufficio di Sanità, al fine di arginare tutte quelle situazioni di emergenza che si creavano a seguito di epidemie – di peste in primis -, e per preservare la città e il territorio da eventuali contagi. Venezia, come città di mare dedita ai commerci e agli scambi, approdo di stranieri e merci provenienti da mercati lontani, era forse più di altre esposta sotto il profilo sanitario, ed il mantenimento della salute pubblica era divenuto un punto di forza per la stabilità dello stesso governo ducale. I provveditori e i sopraprovveditori, quindi, vennero istituiti allo scopo e con le specifiche funzioni di salvaguardare e assicurare al meglio il pubblico benessere, controllando una serie di settori molto ampia ed eterogenea, che andava dallo stato dei lazzaretti alle verifiche dei generi alimentari, dalla pulizia dei canali a quella delle cisterne, dal controllo dei mendicanti a quello delle prostitute, dallo stato di salute di uomini e animali alle modalità di sepoltura dei cadaveri ed altro ancora.
Nell’ambito di un piano generale che prevedeva la diffusione di strutture simili anche nella Terraferma, Padova nel 1531 venne dotata di un medesimo Ufficio, il quale assommava un insieme di funzioni analoghe a quelle dei suo omonimo veneziano, sebbene più specifiche alle esigenze dell’entroterra.
Le persone addette a questo Ufficio erano normalmente cinque Provveditori con poteri decisionali, eletti ogni anno dal Consiglio della Città, più sei soggetti con funzioni che definirei “tecnico-pratiche” che verificavano l’applicazione delle normative da parte della comunità. Questi erano il cancelliere, il coadiutore, il capitanio, il comandador, il protomedico e l’avvocato. La sede di quest’Ufficio venne stabilita nelle adiacenze del Palazzo della Ragione, presso un grande arco – demolito alla fine del secolo scorso – che collegava l’edificio alle prigioni del Comune.
Tutti i processi, cui le infrazioni agli ordini in materia sanitaria davano luogo, erano di competenza dell’Ufficio stesso, che proprio per questo veniva detto anche Magistrato di Sanità.Non essendoci però una normativa codificata che regolamentasse in maniera generalizzata la materia dei frequenti editti e decreti, affrontavano di volta in volta le problematiche più urgenti sia quando queste erano di pubblico interesse, sia quando riguardavano questioni private; esse venivano affisse e “strillate” nei punti maggiormente esposti della città stessa.
I proclami, oltre che per Padova, servivano anche per il territorio, sul quale però la giurisdizione non era esattamente la medesima. Dal punto di vista sanitario, per altro, lo stesso territorio ricadente sotto la giurisdizione dell’Ufficio di Padova nei secoli subì diverse modificazioni. Nel 1600, ad esempio, esso comprendeva sette Podestarie: Montagnana, Castelbaldo, Este, Monselice, Piove di Sacco, Cittadella, Camposampiero; cinque Vicarie: Conselve, Teolo, Arquà, Mirano, Oriago; tre Giurisdizioni: Pisano, Contea d’Onara, Palù Maggiore; quattro Podesterie delegate: Cittadella, Monselice, Montagnana, Este. Nell’Ottocento, infine, a seguito della riforma austriaca, il territorio fu modificato ulteriormente con una suddivisione in dodici distretti: Padova, Camposampiero, Piazzola, Teolo, Battaglia, Este, Montagnana, Monselice, Conselve, Piove di Sacco, Mirano e Noale, ripartizione durata fino a qualche decennio fa.
Di quanto avveniva nelle province l’Ufficio di Sanità di Venezia era sempre completamente informato; era il centro al quale facevano capo, per quanto si riferiva alla materia sanitaria, tutti i fili che partivano anche dai più piccoli paesi. Di fatto, l’Ufficio veneziano corrispondeva con quello di Padova, che a sua volta corrispondeva con le Vicarie e con le Podestarie. Le Podestarie delegate, invece, oltre che con Padova, corrispondevano anche direttamente con la città lagunare.
Nei paesi i Deputati di sanità dipendevano, nelle Vicarie dai Vicari e nelle Podesterie da piccoli uffici locali di sanità, i quali ricevevano gli ordini, analogamente per quanto succedeva per Padova, dai Rettori locali.
Ad una prima analisi dei documenti relativi alle competenze di queste strutture legate al territorio, esse sembrano mutare a seconda dei diversi periodi considerati; se si esaminano più a fondo, però, si nota che al di sotto di un’apparente autonomia gestionale delle problematiche sanitarie che andava allargandosi, rimase costante e forte la dipendenza dagli Uffici di Padova e di Venezia che invece mantennero, e progressivamente ampliarono, i loro poteri.
La gestione di questo insieme di funzioni così ampio e vario fu sempre e comunque difficile, soprattutto quando riguardava il controllo di alcune fra le categorie professionali più forti, come quelle dei medici e degli speziali, molto più disposti a rispettare i dettami del collegio e della corporazione piuttosto che dell’Ufficio.
Ma è forse proprio grazie a questa complessità di rapporti che sono giunte a noi un così gran numero di testimonianze scritte – verbali, relazioni di denuncie, richieste di licenze, processi ed altro ancora – per mezzo delle quali siamo in grado di ricostruire, in certi casi anche nei dettagli, come si articolasse e quanto fosse diramata nel territorio questa struttura sanitaria.
1 farmacisti, ad esempio, fin dalla fine del Seicento, vennero sottoposti a delle visite di controllo frequenti – ogni due anni – e rigorose, che si svolgevano secondo una prassi stabilita e, per certi versi, estremamente moderna. Improvvise, generalmente coordinate da due o tre Provveditori unicamente al Notaio e al Protomedico, esse avevano lo scopo di coglierli alla sprovvista per verificare lo stato delle loro botteghe e la regolarità dei loro commerci. Solitamente iniziavano con un controllo sul personale operante all’interno di questi esercizi, sia in qualità di titolari che di “giovani”, cioè di coloro i quali effettuavano l’apprendistato necessario per poter poi affrontare l’esame che, a loro volta, li avrebbe abilitati.
Un ‘accurata ispezione dei “semplici” e dei “composti” – i medicinali di allora – si accompagnava poi ad una verifica delle ricette mediche, che dovevano riportare una chiara sottoscrizione di chi le avrebbe compilate o altrimenti essere rifiutate dal farmacista.
Nella maggioranza dei casi i preparati – una sessantina in media per farmacia – venivano esaminati direttamente durante l’ispezione, più di rado venivano prelevati al fine di sottoporli ad una analisi esterna, effettuata da alcuni speziali scelti dai Provveditori, che ne certificasse la qualità, la quantità e il contenuto. Questi, se rinvenuti non conformi, potevano, sulla base di una normativa applicata dal Collegio veneziano, essere gettati negli scarichi cittadini e sostituiti nel giro di un limitato numero di giorni, mentre nei casi più gravi era prevista una pena consistente nella chiusura della bottega per un periodo che variava a seconda dell’infrazione commessa, unita al pubblico rogo dei prodotti irregolari nelle maggiori piazze cittadine, con l’implicito scopo di raggiungere così alla sanzione il discredito pubblico.
Tra le farmacie della città di Padova, tuttavia, gli abusi rilevanti non risultano essere stati molti e nemmeno gravi; riguardano per lo più alcuni preparati mancanti o medicinali non proprio di qualità, infrazioni che usualmente, secondo quanto attestano i verbali delle visite successive, nel periodo di dieci giorni venivano riparate.
La uniformità e regolarità della distribuzione sul territorio della città – calcolando che per un numero di 43 mila abitanti circa esistevano 27 farmacie, una ogni 1600 abitanti – unicamente al positivo giudizio espresso dai Provveditori sullo stato generale delle spezierie padovane, costituiscono delle indicazioni attestanti l’efficienza di questo servizio verso gli utenti, che potevano così agevolmente soddisfare le loro esigenze, anche in più di una spezieria, senza percorrere lunghe distanze. Questa diramazione si mantenne pressoché tale per tutto il periodo intercorso tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo: dai periodici controlli dell’Ufficio di Sanità risulta infatti che il numero delle spezierie subì delle variazioni minime.
Le problematiche riguardanti il territorio extraurbano sottoposto all’autorità della magistratura patavina si presentavano ovviamente diverse da quelle cittadine: l’area infatti era vasta e comprendeva zone disomogenee fra loro, alcune delle quali oggi appartenenti ad altre province.
L’insieme delle spezierie dislocate in questo territorio costituiva un’altra notevole rete di distribuzione dei medicinali formata da un’ottantina di unità – cifra mantenuta, con lievi oscillazioni, durante tutto il periodo considerato -, poste, nella gran parte dei casi, nella misura di una o più per paese a seconda dei numero di abitanti. Nell’ultimo decennio dei Settecento questi globalmente ammontavano a circa 278 mila: numero che, se suddiviso, per le ottanta spezierie mediamente operanti durante il diciottesimo secolo, mostra la proporzione di una spezieria ogni 3500 abitanti, cifra decisamente più elevata di quella riscontrata a Padova, ma che ugualmente indica la presenza di un folto numero di farmacie sparse nel territorio.
Anche queste, come le botteghe di città, erano sottoposte a dei controlli biennali che ne accertavano il regolare funzionamento ed esaminavano la qualità dei medicinali venduti, che nel numero, nonostante le ridotte dimensioni di certe spezierie, si avvicinavano a quelle possedute dagli aromatari cittadini.
Nonostante il positivo andamento registrato e l’efficace apparato pubblico che garantiva il regolare esercizio farmaceutico nel Padovano dei Settecento, la vita degli speziali di quelle campagne non era delle più facili: a volte sperduti in piccoli centri dove i mezzi di comunicazione erano scarsissimi, si trovavano spesso a dover combattere per la tutela dei loro diritti, contrastando i fenomeni più spettacolari. Primo fra tutti quello dei “ciarlatani”, eccentrici personaggi che di paese in paese, specialmente durante le fiere, andavano a vendere i rimedi per ogni tipo di malanno, ed elisir che promettevano una lunga vita, danneggiando non solo professionalmente ma anche economicamente la categoria.
Anche sui medici e sui chirurghi l’Ufficio di Sanità esercitava una certa sorveglianza – i primi occupavano, in quella che si poteva considerare una non dichiarata ma effettiva scala gerarchica fra queste professioni, la posizione di maggior prestigio e considerazione: di fatto, diagnosticavano soltanto le malattie dei pazienti che, se bisognosi di un qualche intervento o di una terapia pratica, dovevano rivolgersi ai chirurghi o, nei casi meno gravi, ai cerusici-barbieri.
Verso la metà del Settecento l’Ufficio effettuò nei loro confronti una vera e propria catastificazione per cercare di impedire l’esercizio abusivo della professione. I diplomi rilasciati venivano controfirmati dagli Uffici di Padova o di Venezia e il nominativo dei nuovo medico o del nuovo chirurgo era, così come si faceva per gli speziali, inserito in un elenco nel quale si indicavano le generalità, la data ed il luogo in cui aveva completato il suo corso di studi. Questi elenchi, una volta stampati, venivano affissi nelle spezierie in modo tale da poter essere facilmente consultati da tutti.
Anche nei confronti delle levatrici veniva esercitato lo stesso tipo di sorveglianza, soprattutto dopo che venne delineato con precisione il loro ruolo ed istituzionalizzata la loro figura con la nascita della scuola di ostetricia presso l’ospedale di San Francesco di Padova (1775).
La funzionalità e l’efficienza della struttura sanitaria finirono però inevitabilmente con il risentire dei lento ma inesorabile volgersi dei destino politico ed economico della Serenissima, tanto da giungere, alla fine del Settecento, fortemente indebolite.
Nel 1797, con l’arrivo dei francesi e l’insediarsi delle nuove municipalità, queste magistrature addette alla salvaguardia della salute pubblica furono destituite, ed i loro poteri attribuiti ad un democratico comitato di sanità (15 fiorile-4 maggio).
Ad appena otto giorni di distanza dal suo insediamento, troviamo due importanti ordinanze nelle quali il suddetto comitato disponeva come prima cosa la nomina dei “Colleggetti”, cioè delle deputazioni di sanità anche nei paesi, e ne specificava minuziosamente i compiti – che, per altro, non si differenziavano molto da quelli di un Provveditore veneziano -. Con la seconda, invece, coinvolgeva direttamente la cittadinanza invitata ad osservare una serie di precise norme igieniche che servivano a regolare non soltanto le situazioni più specifiche, quali potevano essere il trasporto di un animale morto o quello di un cadavere, ma anche i comportamenti quotidiani delle persone nel modo, ad esempio, di disfarsi dei rifiuti o delle acque sporche – a questo proposito era severamente vietato gettarli dalle finestre nelle strade – o, ancora, obbligando i proprietari delle case alla costruzione di un “deposito sotterraneo” per lo scolo dei “secchieri” – lavandini di cucina – entro un mese dal proclama.
Con la citata ordinanza del 28 pratile (16 giugno 1797), l’amministrazione sanitaria venne ufficialmente inserita in uno degli otto comitati che componevano l’organizzazione sistematica provvisoria delle municipalità di Padova e di tutto il dipartimento dei Padovano”, centro amministrativo di tutti i poteri, con lo specifico scopo di vigilare sulla salute pubblica, sovraintendere gli ospedali e controllare gli animali – di fatto gli stessi poteri del vecchio Ufficio di Sanità -.
Le ordinanze volte a strutturare quello che doveva essere il nuovo modo di intendere la salute pubblica, se nella sostanza e nei contenuti non erano poi molto differenti dai proclami veneziani, si differenziavano notevolmente per i toni e la velocità con la quale si chiedeva di uniformarsi all’ordine dato – 19 messidoro: ordine ai parroci di effettuare un censimento delle anime affidate alla loro parrocchia; il 23 questo censimento era già stato effettuato e stampato -.
Un ulteriore elemento di differenziazione si può individuare nel fatto che all’interno dell’insieme delle ordinanze emanate in questi pochi mesi di dominio francese un numero rilevante riguarda il settore veterinario. Una questione che sembra aver preoccupato – e non poco – sia i municipalisti che i francesi, perché andava ad aggravare il problema della sussistenza delle truppe; era infatti il diffondersi delle epidemie bovine e ovine – vaiolo per le pecore, morbo epizootico per i buoi – provenienti dal Friuli, diffusesi nel distretto di Cittadella e poi anche fra i buoi francesi tenuti nei giardini dell’Arena ad allarmare le autorità in modo particolare.
Le altre ordinanze riguardavano poi problematiche più o meno note, come il controllo delle professioni “sanitarie” per eccellenza: medici, chirurghi e farmacisti, e la severità nei confronti di chi abusivamente le esercitava. In questi mesi il Governo centrale decise l’istituzione di una Scuola di Sanità, la prima della penisola – la seconda in Europa dopo Berlino -, diretta dal chirurgo Mouchet – la sede si trovava a Palazzo Contarini a San Massimo – per chi avesse voluto diventare ufficiale di sanità presso l’Armata d’Italia. Scelta che cadde su Padova probabilmente perché sede di una importante Università, già possedeva il vasto ospedale militare – ex convento di Sant’Agostino – ed era imminente l’inaugurazione dei nuovo Ospedale giustinianeo.
Negli anni dell’occupazione austriaca, che seguirono al Trattato di Campoformio, la sanità non subì mutamenti rilevanti; la polizia politica di Vienna infatti si caratterizzò per il recupero di parti consistenti della precedente normativa veneziana, tanto che nel 1798 fu concesso il quasi completo ripristino della vecchia legislazione sanitaria.
Durante tutto quel periodo, quindi, nel settore medico farmaceutico non ci furono cambiamenti significativi, proprio perché, pur essendo gli interventi dei legislatori per lo più improntati al mantenimento delle status quo, i loro decreti ricalcavano direttive già sperimentate.
Novità consistenti furono invece apportate dal governo francese negli anni del Regno d’Italia. Fin dal primo momento il problema dell’assistenza, dell’igiene e della sanità fu all’ordine dei giorno del regime napoleonico.
Ancora una volta si riteneva la salute un bene comune e non un fatto privato, concetto per altro che, come ho già evidenziato, non era estraneo alle amministrazioni veneziane e nemmeno a quelle austriache; stavolta, però, presentava un aspetto completamente nuovo, cioè l’estensione di questo principio anche agli strati sociali che fino ad allora ne erano stati esclusi o trascurati.
Con un decreto datato 5 settembre 1806 venne riformato il sistema sanitario e trasformato in uno degli organismi più avanzati ed organici in materia. Furono create delle innovativi direzioni di polizia medica presso le Università di Pavia, di Bologna e di Padova, delle commissioni mediche nei dipartimenti, e nei centri minori delle deputazioni comunali.
Le direzioni erano composte da tutti professori della facoltà medica delle rispettive università, da due medici pratici, da un chirurgo e da uno speziale. Il loro specifico compito era dare “parere motivato sugli interessanti la salute e qualunque richiesta delle autorità incaricate”, accordare l’abilitazione per il libero esercizio della medicina, della chirurgia e della farmacia, e sorvegliare affinché nel praticare queste professioni venissero rispettati i dettami prescritti dai vari decreti.
Per poter esercitare le professioni mediche era stata poi introdotta una prova di idoneità obbligatoria, da sostenere dopo aver ottenuto la laurea e il grado accademico, attestante la capacità dell’esaminato di saper svolgere il mestiere.
Le Commissioni di Sanità, costituite per integrare le attività delle direzioni, erano addette all’accertamento delle credenziali di medici, chirurghi e farmacisti al fine di predisporre gli elenchi generali delle varie giurisdizioni contenenti tutti i nomi dei soggetti abilitati. L’esercizio abusivo di queste professioni e l’eventuale danno alla salute che ne poteva derivare erano considerate infrazioni gravi, che non soltanto portavano a riconoscere come legittima ogni rivendicazione per ottenere il risarcimento dei danni subiti, ma venivano fatte rientrare nell’ambito dei diritto penale.
Nel suo svolgersi, il riordinamento dei settore sanitario rispecchiava fedelmente i caratteri della riforma dell’intero sistema amministrativo dei Regno, organizzato all’insegna dell’ordine, dell’obbedienza e della regolarità.
Fra gli aspetti più peculiari ed importanti di questa riforma ci fu il perseguimento di un’attiva politica di risanamento dell’ambiente e dell’igiene pubblica, nel campo soprattutto della prevenzione di quelle malattie infettive che nel passato avevano flagellato le popolazioni.
In questa lotta per tutelare la salute dei cittadini ed applicare nonché favorire i progressi della medicina, il Regno combatté duramente, soprattutto nel tentativo di introdurre la pratica della profilassi dei vaiolo, la cui vaccinazione venne resa obbligatoria in tutti gli ospedali dal 5 novembre 1802. La mobilitazione fu tale da renderlo un momento memorabile nella storia della politica sanitaria dei regime napoleonico in Italia; la vaccinazione venne propagandata in varie maniere: dalla distribuzione di appositi opuscoli – fra questi il famoso Istruzioni al popolo sulla vaccina -, ai sermoni dei parroci durante le messe domenicali, che esortavano la popolazione alla fiducia nella scienza medica e nelle sue pratiche. Attraverso la lettura di alcune omelie dell’epoca, ci si può rendere conto di come venissero interpretate e presentate le stesse Sacre Scritture per favorire la campagna di vaccinazione, e di come versetti e parti della Bibbia potessero essere utilizzati come promotori di questa politica sanitaria.
Negli anni che portarono alla fine del Regno d’Italia non vi furono altre riforme importanti del sistema sanitario; i decreti emanati in quel periodo furono per lo più indirizzati a completare o a perfezionare parti di una normativa già strutturata, senza indurvi ulteriori novità significative.
Il ritorno degli austriaci aprì invece un nuova stagione di cambiamenti importanti che segnarono in profondità il tessuto sociale, anche a ragione della maggiore durata di questa seconda occupazione che accompagnò il Veneto fino al 1866.
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